Obama il timido

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 Allora il presidente degli Stati uniti voleva aprire un’èra nuova nei rapporti tra l’Occidente e il mondo arabo. In quell’appassionata perorazione di quattro anni fa – sul valore del dialogo, sull’universalità dei diritti umani – qualcuno vide in seguito uno dei germi culturali delle primavere arabe. Ma oggi il termine “primavere arabe” viene usato quasi con scherno, da chi vuole sottolineare un bilancio funesto per quei popoli e anche per la politica estera di Obama. Lo scandalo di Bengasi fu il segnale premonitore. Non basta che Hillary Clinton si sia tolta provvisoriamente dalla scena, portando su di sé l’onta di quell’attacco: quattro funzionari Usa uccisi, compreso l’ambasciatore in Libia, per un’offensiva targata Al Qaeda che l’intelligence Usa avrebbe dovuto prevenire. Poi il disastro Siria: nonostante la voce grossa di Obama e le sanzioni Assad resta al suo posto con un bilancio di massacri che perfino l’esercito egiziano fatica a emulare.
Ma l’Egitto è più grave, lì si consuma la madre di tutte le disfatte per la politica mediorientale di Washington. Di fronte alla carneficina provocata dai mi-litari, Obama ha reagito con una timidezza disarmante. (Peggio di lui ha fatto solo John Kerry, segretario di Stato, che in un’incauta intervista all’inizio delle violenze ha descritto una giunta militare impegnata a “restaurare la democrazia”). Obama ha cancellato la vendita di alcuni jet militari, e le esercitazioni congiunte previste il mese prossimo. È pochissimo. A Washington è palpabile un senso di smarrimento e di impotenza. Anzitutto, si capisce che per molti mesi la Casa Bianca, il Dipartimento di Stato e il Pentagono hanno commesso errori grossolani di analisi della situazione egiziana. Per esempio, sopravvalutando la coesione della società civile e sottovalutando i rischi di una guerra civile. Incertezze e dilettantismi, anche da parte dei diplomatici Usa in loco, hanno dato la sensazione che l’America stesse un po’ con tutti: dai Fratelli musulmani, ai laici, ai militari. L’intero arco delle crisi aperte dal 2010 in poi, dalla Tunisia alla Turchia passando per la Libia, la Siria, il Libano e l’Egitto, avrebbero richiesto un riesame profondo delle forze in campo, e una revisione strategica, che l’Amministrazione Obama non ha saputo fare.
Ora la timidezza di Obama viene descritta come una forma di estremo realismo. A che servirebbe – dicono i suoi consiglieri – tagliare gli aiuti ai militari egiziani (1,5 miliardi) privando gli Usa dell’ultima arma di pressione per influenzare il loro comportamento? Da una parte, il Pentagono insiste nel descrivere quegli aiuti come un ottimo investimento: in cambio, l’America ci guadagna la libertà di sorvolo dei cieli egiziani per i suoi jet militari; una “corsia preferenziale” (anche per la US Navy) nel Canale di Suez; la pace tra Egitto e Israele; infine un quasi perfetto allineamento del Cairo sulle posizioni della diplomazia Usa in Medio Oriente. Di converso, proseguono le fonti dell’Amministrazione, senza quegli aiuti Usa i militari del Cairo troverebbero ben altre risorse. L’Arabia saudita ha già promesso 8 miliardi subito ai generali egiziani, e potrebbero salire a 12 col contributo degli emirati del Golfo. L’Arabia saudita non ha mai accettato la dottrina Obama sulle primavere arabe; considera destabilizzanti le aperture americane verso i movimenti anti-autoritari, dalla Tunisia in poi. Un vasto disegno restauratore con gli immensi mezzi finanziari delle dinastie del Golfo è pronto a sostituirsi all’influenza degli Stati Uniti. Altri sono in agguato: a cominciare da Vladimir Putin che sogna di recuperare l’Egitto come un protettorato di Mosca, qual era ai tempi di Nasser. La Cina è interessata ad infilarsi come un attore strategico in zone da cui dipendono i suoi approvvigionamenti energetici. Queste considerazioni non tolgono nulla alla sensazione di impotenza che avvolge la Casa Bianca. Obama sta scontentando un po’ tutti. In Egitto sia i militari che i laici che gli islamici diffidano di lui. Fino alla beffa di vedersi rinfacciare dal governo l’accusa di “aiutare i terroristi”. In altre parti del mondo la credibilità della leadership americana è messa in dubbio. L’opinione pubblica più liberal in America assiste sgomenta allo spettacolo di un presidente che non osa pronunciare la parola “golpe” (automaticamente lo costringerebbe a cancellare gli aiuti). Dopo avere inviato al Cairo per una missione esplorativa il suo ex rivale repubblicano John McCain, ora Obama viene sconfessato anche dal vecchio senatore di destra, con parole che fanno male, perché sono vere. “Per non aver chiamato un colpo di Stato con il suo nome, abbiamo calpestato le nostre leggi, e abbiamo tradito i nostri valori”.


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