Per un pugno di voti, Merkel appesa ai liberali

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BERLINO. Il partito di Angela Merkel, salvo clamorose sorprese, sarà il più votato alle elezioni federali del prossimo 22 settembre: quasi nessuno, qui in Germania, lo mette in dubbio. I democristiani della Cdu veleggiano nei sondaggi intorno al 40%, capitalizzando quello che è ritenuto essere il «buon lavoro» della cancelliera nella gestione della crisi dell’euro. I principali avversari, i socialdemocratici (Spd) guidati da Peer Steinbrück, arrancano: non riescono a recuperare terreno in modo significativo dopo la débâcle del 2009, quando precipitarono al 23%. Merkel può dunque dormire sonni tranquilli: dal diretto concorrente non deve attendersi particolari insidie.
I problemi per la leader democristiana, semmai, potranno giungere dagli attuali alleati. E non perché i liberali della Fdp abbiano deciso di sciogliere il patto che li lega alla Cdu, ma perché potrebbero non entrare nella prossima Camera dei deputati (Bundestag). La legge elettorale prevede una soglia di sbarramento al 5%: non è affatto certo – sondaggi alla mano – che riusciranno a superarla. Senza i liberali a disposizione, Merkel sarebbe costretta a tentare la strada della grosse koalition con la Spd o azzardare un inedito accordo con i Verdi: opzioni possibili, ma tutt’altro che sicure.
Un’eventuale esclusione della Fdp dal parlamento, infatti, darebbe argomenti a quanti sostengono che gli elettori tedeschi vogliono un cambio radicale di governo: i fautori di un’alleanza delle tre sinistre (Spd, Verdi e social-comunisti della Linke) potrebbero prendere coraggio all’interno dei loro stessi partiti, e tentare di sfrattare Merkel dalla cancelleria. E i democristiani, questo, lo sanno bene. Ed è ciò che maggiormente temono.
Il ruolo dei liberali, dunque, è cruciale: dalla loro performance del prossimo 22 settembre dipenderà in misura significativa la direzione che prenderà la Germania nei prossimi quattro anni. E non solo: forse è in gioco anche qualcosa di più profondo per la vita della Repubblica federale, abituata alla stabilità del proprio sistema politico. Se la Fdp dovesse restare sotto la soglia di sbarramento, il prossimo Bundestag sarebbe il primo dal dopoguerra a non ospitare tra i propri banchi un gruppo liberale: le conseguenze per la tenuta del partito sarebbero imprevedibili. Soprattutto se, parallelamente, la populista Alternative für Deutschland dovesse raccogliere un consenso simile, o maggiore, e magari sostituire la Fdp nello scacchiere dei partiti.
Consapevole di lottare anche per la propria sopravvivenza, la Fdp sta conducendo una campagna elettorale mirata ad assicurarsi quello zoccolo duro di elettorato benestante – soprattutto professionisti e piccoli imprenditori – che può garantirle il superamento del 5%. Lo spauracchio che viene agitato per mobilitare la base sociale di riferimento è il programma economico della Spd: «Se i socialdemocratici andranno al governo, ci sarà un massiccio aumento delle tasse e quindi un indebolimento della nostra economia», dice al manifesto Daniel Bahr, 36 anni, uno dei dirigenti di punta del partito e ministro della sanità in carica.
«Sarebbero guai anche se la Spd fosse solamente il socio minore di una grosse Koalition con la Cdu: perché i democristiani, quando sono con i socialdemocratici, alla fine tendono sempre a scivolare a sinistra», sostiene il ministro, che incontriamo a margine di un’iniziativa della Fdp svoltasi martedì sera nel quartiere berlinese Mitte (un tempo alternativo, ora decisamente «fighetto»). «La Spd vuole più regole nel mercato del lavoro, quando invece abbiamo bisogno di più flessibilità», è la tesi di Bahr. E i quasi otto milioni di lavoratori con i cosiddetti minijobs? Non pervenuti. Ma non bisogna stupirsi: al posto della giustizia sociale, i liberali enfatizzano la «Leistungsgerechtigkeit», un concetto traducibile grosso modo con «giustizia meritocratica». Della serie: giusto è ciò che premia «i migliori».
L’altra grande minaccia che per i liberali grava sulla Germania è «la tirannide della virtù propagata dai Verdi», afferma il giovane ministro, da poco rientrato in servizio dopo il congedo parentale. «Noi e gli ecologisti – argomenta – abbiamo una diversa interpretazione di cosa si deve intendere per libertà. I Grünen assomigliano a quei rivoluzionari francesi convinti di sapere cos’è la virtù e di dover obbligare gli altri a obbedire. La nostra idea, invece, è che ciascuno è libero di decidere come vuole vivere, e quindi anche cosa vuole bere o mangiare». La polemica è diretta, in particolare, contro una proposta avanzata dalla capolista verde, Katrin Göring-Eckardt, che ha suscitato molto dibattito: prevedere che le mense scolastiche e aziendali offrano un giorno alla settimana solo piatti vegetariani. Un interessante (forse un po’ maldestro) stimolo ad affrontare il problema del consumo eccessivo di carne, dannoso per la salute delle persone, ma soprattutto l’ambiente? No, per i liberali è la volontà di instaurare una specie di eco-dittatura, una «Repubblica dei divieti».
Sull’austerità in Europa, ovvio, guai a chi tentenna: «La linea è giusta, perché l’indebitamento pubblico è nefasto: pesa sempre sulle spalle delle generazioni successive. Anche da voi in Italia molti sanno che se vuoi distribuire qualcosa, prima devi avercelo: fare altrimenti significa agire in modo irresponsabile, provocando l’aumento costante degli interessi sul debito. La politica seria spende solo quello che c’è davvero nelle casse dello stato», sentenzia Bahr.
Da parte dell’esponente liberale c’è scarsa comprensione, per usare un eufemismo, nei confronti delle manifestazioni anti-austerità in Paesi come la Grecia o la Spagna: «Se per l’euro si vogliono i vantaggi del marco tedesco, soprattutto la stabilità, allora – dice senza giri di parole – ci si deve attenere alle regole che valevano per la nostra moneta: altrimenti si spalancano le porte all’inflazione». Il messaggio è chiaro. E chi protesta è servito.


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