Piccole industrie alla conquista del mondo

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Il giorno in cui Enrico Trevisan si è chiesto se aprire la fabbrica ogni mattina alle sette avesse ancora senso, è quando gli hanno detto di assumere un ornitologo. Vicino a Vicenza, Trevisan costruisce macchine per produrre il tipo di valvole che si usa nei giacimenti di petrolio. Il boom dell’estrazione di greggio dalla roccia in America ha aperto un nuovo mercato e Trevisan da tempo aveva bisogno di un capannone più alto, non più otto bensì 12 metri. Ma per la licenza edilizia l’amministrazione locale esigeva una certificazione del fatto che la vita degli uccelli non avrebbe risentito di quei quattro
metri di tetto in più.

A Klagenfurt, dall’altra parte del confine italo- austriaco, non funziona esattamente così. Il Comune attrae gli imprenditori veneti offrendo loro capannoni già pronti, cablati e con wi-fi, case qualora vogliano portarsi i vecchi dipendenti italiani e tasse ridotte di due terzi. Ma Trevisan, 57 anni, non ha mollato. «La fabbrica è qui e deve andare avanti », dice. Ci ha messo nove anni, ha speso due milioni di euro in permessi pubblici, ma alla fine è riuscito a raddoppiare la superficie produttiva senza spostarsi. Lì suo padre era partito in un garage mettendo a punto, a forza di provare, la sola macchina al mondo capace di fare allo stesso tempo la fresatura o la tornitura di una valvola. Ma il figlio appartiene a un gruppo di italiani che sono riusciti in qualcosa di altrettanto impossibile: crescere, creare posti di lavoro e essere presenti nel mondo mentre il loro Paese sembra finito in un tunnel senza uscita.
Fabrizio Fois, della banca Barclays, nota come in Italia solo un indicatore sia risalito ai livelli di prima della grande frattura del 2008: le esportazioni fuori dall’Unione europea (quelle all’interno, invece, sono giù di almeno il 20%). Migliaia di manager di aziende dove spesso non si parla italiano, ma l’inglese con i clienti e un dialetto del nord-est fra colleghi, hanno risposto al crac di Lehman e all’esplosione dello spread recandosi in aeroporto in cerca di nuovi clienti non solo in India o in Cina, ma in Nepal, in Indonesia o in Bangladesh.
Si deve a persone così se l’Italia oggi ha una speranza di ripresa. Per loro il Paese di provenienza non sempre è un biglietto da visita facile. Trevisan ha scoperto che in India, dove il reddito per abitante è un ottavo di quello italiano, i committenti non accettano più le garanzie di Intesa Sanpaolo o Unicredit sugli anticipi di cassa perché il loro rating è ormai troppo basso.
In questi e altri casi simili a volte interviene Sace, la società di assicurazione all’export che il Tesoro ha trasferito a Cassa depositi l’anno scorso. Ma per quanto questa struttura semipubblica offra sostegno, anche garantendo il credito, l’Italia resta un trampolino pieno di trappole da cui lanciarsi nel resto del mondo. L’altro giorno Massimo Finco ha chiuso un accordo da 25 milioni in Ucraina, poi ha fatto un rapido calcolo: fosse stato tedesco, avrebbe guadagnato un milione in più perché avrebbe pagato quasi il 3% in meno in interessi sull’investimento. Da Marsango, una frazione di tremila abitanti nel padovano, Finco guida un gruppo familiare da un miliardo di euro di fatturato il
cui cuore è la Facco: un’impresa che dal giorno in cui Lehman fallì ha già triplicato le vendite. L’80% delle commesse viene da fuori Europa, Paesi spesso poverissimi che Finco chiede di non citare «per non farlo sapere ai concorrenti».
Tutto era partito negli anni ’50 quando suo padre costruiva gabbie per gli allevatori di pollame del paese. Oggi invece Finco, 58 anni, misura la corsa della globalizzazione sul numero di galline da uova che un solo impianto riesce a contenere: erano 10 mila nel 1966, 50 mila nel ’96, 80 mila nel 2003 e un milione nel 2013. «Dobbiamo andare veloci per restare sempre un passo avanti ai costruttori turchi o cinesi », spiega. Il suo orgoglio sono queste enormi opere di automazione capaci di portare un milione di uova al giorno, dice in dialetto, «dal culo della gallina al supermarket» attraverso un complesso sistema di bande rotanti, aerazione, illuminazione. Ma bisogna venire a Marsango per capire che razza di spin-off tecnologici possa produrre un’azienda nata in origine per chiudere qualche pollo in un’aia: la rete per fare le gabbie presto fu usata anche per fornire scaffali ai negozi, e oggi il gruppo Finco ha trasformato questa vocazione fino a produrre i banchi frigo dei supermercati di tutto il mondo. E per tagliare i pannelli dei capannoni di metallo il gruppo ha sviluppato un sistema di laser di cui oggi si servono molti grandi costruttori meccanici, a partire da Maserati.
Il segreto è nell’approccio: secondo Massimo Finco l’emersione dalla povertà di centinaia di milioni di asiatici e di africani è un fenomeno «eticamente giusto ma anche conveniente per noi – dice-. Dobbiamo rinunciare all’illusione che il mondo ci debba garantire il nostro benessere e iniziare a conquistarcelo ogni giorno». L’indotto del suo gruppo mantiene migliaia di posti nella provincia di Padova. Poco lontano, a Campodarsego, il 70enne Egidio Maschio passa le giornate in elicottero fra i suoi cinque impianti di costruzione di macchine agricole destinate alle sterminate distese russe o della
corn belt americana. Lui è partito letteralmente da solo in una stalla e oggi ha 1300 addetti, ai quali a volte fa persino credito senza interessi quando le banche negano un mutuo. Nella recessione ai dipendenti ha offerto un patto: certezza del posto in cambio di massimo impegno e salario congelato. La produttività e il fatturato sono continuati a salire senza sosta, 236 milioni nel 2012. «Nella crisi mi diverto ancora di più a lavorare, è la mia vacanza – dice -. Anche dopo morto continuo».
Ma non è chiaro che questa élite italiana di conquistatori sia così forte da poter trascinare il resto del Paese. L’export in Italia pesa per un quarto del prodotto nazionale e quello fuori Europa circa per il 13%: un motore a pieni giri, eppure non abbastanza potente. Fois, l’analista di Barclays, è convinto che il ritorno alla crescita arriverà solo quando i consumi e gli investimenti ripartiranno nel mercato nazionale. Un problema è la difficoltà dei campioni del made in Italy a coronare la loro epopea, dai garage di paese allo stato di grande azienda globale. Ci è andata vicina due anni fa la Cimolai di Pordenone,
una società partita facendo cancelli che oggi firma gli stadi più belli del mondo: quello dei mondiali a Johannesburg, in Sudafrica, quello di Brasilia, e tutte le opere di Calatrava. Cimolai è arrivata a un soffio dall’acquisto di Permasteelisa, il gioiello bellunese che eccelle nella costruzione di coperture di grattacieli, da New York al Golfo persico. Sarebbe nato a colosso da due miliardi, che sollevava già gelosie fra altri imprenditori italiani. Alla fine sono arrivati i giapponesi di Js Group, hanno preso Permasteelisa in un blitz. E hanno messo tutti d’accordo.


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