Processi pendenti tempi e prassi I dubbi sulla grazia

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ROMA — In una lettera indirizzata nell’ottobre 1997 ai presidenti di Camera e Senato, il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro indicò, tra le ragioni per cui ritenne di non poter concedere un atto di clemenza sollecitatogli da più parti, anche l’eccesiva vicinanza al verdetto dei giudici: «La grazia, qualora applicata a breve distanza dalla sentenza definitiva di condanna, assumerebbe oggettivamente il significato di una valutazione di merito opposta a quella del magistrato, configurando un ulteriore grado di giudizio che non esiste nell’ordinamento e determinando un evidente pericolo di conflitto tra poteri».
Non che simili valutazioni siano vincolanti per i successori, ma — spiegano i giuristi — nell’esercizio delle prerogative del capo dello Stato la prassi, che in diritto si traduce in «consuetudine», ha un peso. Scalfaro parlava del cosiddetto «caso Sofri», e la sentenza definitiva contro i responsabili del delitto Calabresi risaliva a dieci mesi prima; per Berlusconi s’è cominciato a parlare di grazia poche ore dopo la condanna.
Anche la pendenza di altri procedimenti penali non è un ostacolo insuperabile alla firma del provvedimento di clemenza, ma non tenere conto della posizione processuale complessiva dell’interessato sarebbe inusuale. E il leader del Pdl è ancora imputato e indagato davanti a diversi giudici e Procure della Repubblica; «difficile immaginare un provvedimento di grazia in questa situazione», commenta l’ex presidente della corte costituzionale Mirabelli. Tra l’altro anche l’applicazione dell’indulto, a fronte di quei procedimenti, diventa provvisoria: in caso di un’altra condanna definitiva, infatti, la riduzione di pena decadrebbe e Berlusconi dovrebbe scontare tutte le condanne per intero.
L’ipotetica grazia, al momento, potrebbe riferirsi solo ai quattro anni di carcere (o a una parte, magari l’anno escluso dall’indulto), e non invece all’interdizione dai pubblici uffici annullata dalla Cassazione che ha rispedito il fascicolo alla corte d’appello di Milano perché ne ridetermini la durata. Piuttosto, se dalla sentenza ormai irrevocabile dovesse derivare la decadenza dalla carica di senatore per effetto della nuova legge anticorruzione, secondo l’opinione prevalente la grazia non servirebbe a reintegrare Berlusconi a Palazzo Madama. L’atto di clemenza presidenziale, infatti, non cancellerebbe la condanna (da cui discenderebbe l’espulsione dal Parlamento), bensì i suoi effetti pratici nell’espiazione della pena.
Altre considerazioni desumibili da precedenti decisioni approdate alla Corte costituzionale, danno una definizione della grazia che sembra conciliarsi poco con gli intenti di chi in queste ore la sta chiedendo per l’ex presidente del Consiglio. Ricorrendo alla Consulta contro il ministro della Giustizia Roberto Castelli che non intendeva aderire a una richiesta di grazia (sempre in relazione al delitto Calabresi), l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi sostenne che «appare naturale che la sua concessione esuli del tutto da valutazioni di natura politica». E nella decisione di quel conflitto tra poteri in favore di Ciampi, la Corte costituzionale ritenne che «determinando l’esercizio del potere di grazia una deroga al principio di legalità, il suo impiego debba essere contenuto entro ambiti circoscritti destinati a valorizzare soltanto eccezionali esigenze di natura umanitaria».
Un concetto sottolineato più volte in quella sentenza del 2006. In un altro passaggio la Consulta spiegò che proprio la più recente «applicazione ridotta» (peraltro rispettata da Napolitano nel suo primo settennato) rispetto alla manica larga con cui veniva concessa nei primi decenni di Repubblica, «ha fatto sì che l’istituto della grazia sia stato restituito alla sua funzione di eccezionale strumento destinato a soddisfare straordinarie esigenze di natura umanitaria».
Giovanni Bianconi


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