Quarant’anni nella foresta per sfuggire agli yankee ritrovati gli ultimi vietcong

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LÌ HANNO vissuto come il Barone Rampante di Italo Calvino passando di ramo in ramo, sono stati persuasi a tornare su quella terra che abbandonarono quando le bombe uccisero il resto della loro famiglia. Ho Van Than era scappato dal villaggio di Tay Tra dopo una notte di bombardamenti a pioggia partiti dalla vicina base americana di Da Nang, allora il più trafficato aeroporto, civile o militare, del mondo. Aveva visto le capanne polverizzate, la moglie e due figli dilaniati e non aveva retto. Con in braccio Ho Van Lang, l’ultimo figlio ancora vivo, allora un neonato, Than era corso via verso le foreste sulle alture dell’Ovest. Per cinque anni era stato un diligente, convinto soldatino della guerra contro il Sud e «l’imperialismo yankee». Era stato un vietcong, un «quadro» politico, un piccolo dirigente in quel microscopico villaggio e poi un ausiliario segreto dell’Esercito Regolare Nordvietnamita. Ma quella notte decise che ne aveva avuto abbastanza. Decise di abbandonare non soltanto la «gloriosa lotta», ma il mondo.
Leggenda vuole che lui e la creatura in braccio fossero scomparsi per sempre e dati per morti, in una jungla che non è la accogliente foresta disneyana di Mowgli e del naturalismo paternalista di Kipling. Ma non è vero. Than e il figlio andarono il più lontano possibile dai paesi e dagli abitati dove l’ultima, feroce fiammata di una guerra pur già perduta dagli americani consumava la propria apocalisse. Si addentrarono per 40 chilometri nelle colline e nei monti della provincia, una distanza spaventosa dentro un jungla con un bambino in braccio, spesso evitando le trappole mortali del sottobosco e passando di albero in albero, di rami in liane, fino a scegliere quello dove il padre avrebbe costruito la casa. Casa simile a un nido di uccelli, un’intelaiatura di stecchi e foglie che dopo ogni tempesta monsonica, per 40 anni, lui prima da solo e poi con l’aiuto del figlio che cresceva, doveva ricostruire.
Ma i parenti, i superstiti del bombardamento, gli zii, i fratelli, i cugini delle sempre estesissime famiglie vietamite sapevano dove erano. Periodicamente, qualcuno li raggiungeva, portando olio e sale e pentole per cucinare e panni da indossare, che Than accettava e stipava in un sacco di plastica per la spazzatura, senza toccarli. La sua, dopo la fuga nel terrore per salvare almeno l’ultimo figlio, era divenuta una scelta di vita. Un rifiuto del mondo e un ritorno al primitivismo più elementare. Come abbia cresciuto da solo un neonato, il figlio che oggi ha 42 anni, è un mistero che potrebbe interessare a pediatri, nutrizionisti e madri in perenne ansia per il bebè con le coliche e i pannolini sporchi, ma lo crebbe.
Riposero quello che restava dei loro abiti, compresi i calzoni della uniforme che l’esercito del Vietnam comunista gli aveva dato e un cappottino rosso per il bambini, in un altro sacco, lasciandoli ammuffire. Si vestivano di perizoma fatti di cortecce e foglie, perché anche in quel ruvido Eden era sopravvissuto il senso del pudore. Si nutrivano di manioca, di bacche, di foglie, di piccoli animali catturati o cacciati con gli archi, le frecce, gli utensili che si erano fabbricati da soli. E poi di granturco, quando, vent’anni or sono, furono raggiunti da parenti che portarono loro semi, pianticelle, anche di tabacco, che i due seccavano e fumavano. Attorno agli alberi avevano dissodato abbastanza terra per coltivare anche canne da zucchero, il loro unico lusso e vizio insieme con il tabacco.
Non erano quindi il tenente Hiroo Onoda, «l’ultimo giapponese», l’ufficiale che per 29 anni rimase nelle Filippine con le armi in pugno in attesa di nuovi ordine e della conferma della resa imperiale, che lui non accettò mai. Than e Lang volevano vivere quella vita e il vecchio avrebbe voluto morire tra gli alberi dove si era arrampicato, ma il figlio lo ha tradito. Quando una delegazione di parenti, mobilitati dal segretario locale del partito che si era scocciato della leggenda dei “Robinson” nel jungla e ne temeva risvolti politici pericolosi e guidati dal cugino tifoso dell’Inter hanno bussato all’albero, Lang, il figlio, si è arreso. Ha permesso che i soccorritori si arrampicassero portando un’amaca per deporvi il padre, un leggero scheletro umano di 82 anni, e lo calassero, mentre lui, vestito del perizoma di foglie tentava di comunicare con gli umani. Tentava,
perché nella regressione anche la comunicazione umana si era via via scarnificata fino a ridursi a poche parole del dialetto locale, il Cro, e a suoni incoerenti.
Il padre è ora in ospedale, dove lo stanno alimentando con flebo e con blande diete semiliquide per ridargli forza, ma non ha patologie gravi, oltre la denutrizione. Il figlio Lang è tornato al villaggio, dove le donne di famiglia lo hanno vestito e lo stanno imbottendo di riso, mentre cercando di insegnare di nuovo a parlare a un neonato di 42 anni. Nel villaggio, dove il tempo ha sepolto i segni degli orrori e la jungla soffice ha inghiottito il dolore, c’è anche un’antenna per la tv satellitare, racconta l’edizione in inglese di un blog di Saigon, il Than Nièn. E’ uscito giusto in tempo dalla sua casa nella foresta. Tra pochi giorni, ricomincia il campionato di Serie A in Italia e potrà guardare l’Inter.


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