Quella maschera triste in scena a palazzo Grazioli

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NON sono venuti. La prima a salire sul palco per dare un’occhiata portandosi la mano alla fronte come si fa davanti ad orizzonti di folla oceanici è Daniela Santanchè, già candidata alla vicepresidenza della Camera nel governo di larghe intese e miti pretese, oggi qui impegnata a dire che la grazia dal Quirinale deve arrivare e che lei di Napolitano non ha paura, «è un uomo come noi», che lei è pronta a fare la rivoluzione a marciare sul Colle. Già questo dettaglio indice di quanto la “manifestazione spontanea” possa impensierire il presidente del Consiglio Enrico Letta, a Napolitano caro come un figlio, circa le sorti di un governo di cui il pregiudicato Silvio Berlusconi è azionista di riferimento e Santanchè cupa cheerleader. Purtroppo non sono venuti. I 500 pullman attesi, tutto pagato per tutti, devono aver avuto un intoppo che non è solo, come dice Fabrizio Cicchitto col consueto senso delle istituzioni, l’ostinazione di «quel cretino di Marino», sindaco di Roma, a dire che la manifestazione non è stata autorizzata, che nessuno ha chiesto il permesso di bloccare via del Plebiscito e di deviare gli autobus dal centro della Capitale.

DI USARE la città come se fosse il suo personale salotto e pazienza per chi da piazza Venezia doveva passare ieri per esempio per andare in ospedale, o a un appuntamento d’amore o a prendere il treno, in fondo è domenica, è agosto e chissenefrega degli altri. “Il Popolo della Libertà per la libertà di Silvio”, dice uno striscione. Il senso della mesta messa in scena è tutto qui: un partito al servizio della personale vicenda privata del suo duce.
Ed è difatti dal Balcone, che ci si aspetta che si affacci. In un gioco di specchi nei balconi di Palazzo Venezia sono invece assiepati oggi i fotografi, il dirimpettaio sul suo terrazzino ha messo su la bandiera tricolore, è un uomo di Stato intende dire, l’una volta missino Gasparri si protende dall’alto del balcone verso i militanti e li incita a cantare. “Meno male che Silvio c’è”, intona qualcuno memore del “Silvio ci manchi” su cui Francesca Pascale, fidanzata dell’ex premier, ha investito fin dai tempi di Telecafone con successo. Arrivano insieme a Palazzo Grazioli, lei col barboncino Dudù, lui impegnato a infilarsi la giacca
con un gesto che le foto impietose immortalano insieme alla nudità dell’ampio ventre. Il tempo di cambiarsi, Pascale ha scelto il tubino nero in altri contesti celebre, ed eccoli. Sulle note dell’Inno di Mameli, Fratelli d’Italia. Entrambi in nero, vestiti come a lutto. Lui in maglietta girocollo che ringiovanisce, devono avergli detto. E anche di usare prudenza, devono avergli suggerito dal Colle e da Palazzo Chigi, di fare molta attenzione alle parole giacchè la “guerra civile” evocata dal fidato Bondi ha indispettito non poco il Presidente. Perciò il discorso è lento, e mesto.
Sono le sei e un quarto di pomeriggio quando, in una giornata torrida insolentita dai gesti di scherno di Alessandra Mussolini legittima nipote e dal ribollire dell’asfalto, il Nostro non dal balcone si affaccia ma dal portone, e sale sul palchetto replicato da un paio di schermi. Qualche migliaio di persone sventolano bandiere opportunamente fornite agli angoli della via dall’organizzazione, bandiere di Forza Italia giacchè è da lì, dal suo personale partito e non dal Popolo delle libertà, che il condannato B. intende ripartire. «Sono qui, resto qui, non mollo», dice, e dunque boia chi molla.
Gli autobus che hanno portato i manifestanti — molte coppie di anziani, parecchi giovanotti con occhiali scuri a goccia, una grande maggioranza di signore in età che si ripetono commenti sul suo charme — sono parcheggiati sul Lungotevere, a qualche centinaio di metri. Quelli arrivati dall’Umbria sono alla fermata Anagnina, quelli da Reggio in piazza Venezia dove però purtroppo non possono sostare, sempre per via di “quel cretino” del sindaco, dunque gli autisti stanno in moto girano in tondo. Matteoli e Micchichè raggiungono il retropalco, Franco Carraro è già in prima fila, Anna Maria Bernini e Mara Carfagna arrancano fra i sudati annaffiati da bottigliette d’acqua fornite dal servizio d’ordine. È chiaro che chi è dentro al Palazzo ha maggior rango rispetto a chi è fuori, segnali di dispetto di alcuni esclusi che, platealmente — Carraro fra questi — se ne vanno.
Dal palco, con la maschera del volto atteggiata ad un pianto senza lacrime, Berlusconi deve dire due cose: che il governo vive, questa è la più importante e la prima, la più deludente per quelli che erano arrivati coi cartelli “Basta larghe intese”, “Ora condannateci tutti”. Vive, il governo, perché la libertà dell’ex premier per cui il suo Popolo è venuta a manifestare prevede che ci sia qualcuno che gliela garantisce, e il cinico calcolo dice che solo tenendo in vita questo governo Berlusconi può sperare. Se poi sarà il Pd a volere le elezioni faccia pure, lui per parte sua, sia chiaro, resta. Condannato in ultima istanza, ma resta. Ed è questa la seconda cosa che ha da dire, a proposito della condanna: che lui è innocente. Ovazione, boato. Innocente condannato da giudici comunisti, tristi impiegatucci dello Stato — sventolare di bandiere — che non lo fermeranno, certo che no, perché lui di quel 7 milioni e rotti che doveva allo Stato negli anni in cui di quello stesso Paese era alla guida, mica qualche migliaio di euro di Imu saldati in ravvedimento come la Idem, di quei 7 milioni frodati al fisco ha già ripagato tutto, perciò cosa vogliono da lui.
Si capisce che Enrico Letta sia in apprensione, sì, in specie quando pensa a una campagna elettorale eventuale. E si capisce anche la prudenza di un discorso breve, inconcludente, che lascia perplessa la minoranza di manifestanti venuta da casa senza bus che si aspettava invece — dice la signora Gemma, romana — che “Silvio mandasse tutto a monte, perché Silvio è il numero uno e se si va a votare domani vince lui”. Questo un po’ il rischio, in effetti, visto da altre dimore politiche. In piazza gridano “libero, libero” a un uomo che con ogni evidenza è libero già: di fare della pubblica via il suo teatro e di dire che la Cassazione è comunista e antidemocratica. Tre o quattro ragazzi di passaggio intonano Bella Ciao, vengono aggrediti da una selva di voci che gridano “in Siberia” e cacciati dalla strada. Una donna dice che nessun pregiudicato dovrebbe stare al governo, le lanciano monetine.
Per chi deve tornare a Gallipoli in bus s’è fatta una cert’ora, la sparuta pattuglia in occhiali scuri comincia a defluire. Carfagna era già stata scortata via mezz’ora fa. Le finestre di palazzo Venezia si chiudono, quelle di fronte di casa Berlusconi si accostano. Era questo, solo questo. Un piccolo intermezzo agostano ad uso delle tv, con parecchi figuranti e il protagonista a difendere se stesso, come sempre. Ricordava un po’ le antiche manifestazioni dell’ultimo Msi, pochi ma molto convinti. Letta ha seguito in diretta tv. Napolitano è stato costantemente informato. Poteva andare peggio, in fondo, dal loro punto di vista. E’ stato breve, ma triste.


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