SIRIA Kurdistan iracheno, un esodo di profughi senza precedenti
Ad accoglierli è il governo autonomo del Kurdistan che ha lanciato l’allarme: molti rifugiati sono stati stipati in moschee e scuole, come misura temporanea in attesa di trovare una via di uscita dall’emergenza. Oggi il portavoce dell’Unhcr, Adrian Edwards, ha fatto sapere che i supervisori Onu, dopo il passaggio di 750 persone lo scorso giovedì dal ponte Peshkabour sul fiume Tigri, nei giorni successivi hanno assistito a un vero e proprio esodo: 21mila persone hanno raggiunto il confine a bordo di bus provenienti da Nord, da Aleppo, Hassake, Afrin.
E mentre il numero totale di rifugiati siriani nella regione arriva a sfiorare i tre milioni (quasi 155mila in Iraq), a preoccupare Baghdad è che, accanto a famiglie bisognose di accoglienza, il permeabile confine con la Siria faccia passare anche quei settarismi politici e religiosi che potrebbero trascinare definitivamente l’Iraq in una guerra civile di vaste proporzioni. Dalla partenza delle truppe americane, alla fine del 2011, il governo del premier Maliki – posizionato sulla poltrona più alta da Washington – ha mostrato la sua incapacità ad affrontare le difficoltà di un Paese che usciva da 8 anni di occupazione militare. Incapacità ad affrontare il terrorismo interno, ad avviare una seria ricostruzione delle infrastrutture e ad affrontare con fermezza il dilagare della corruzione.
L’arrivo in massa dei profughi siriani destabilizza ulteriormente una situazione critica, fatta di sanguinosi attentati quotidiani firmati da Al Qaeda. Baghdad ha già fatto appello per un nuovo intervento statunitense: venerdì scorso il ministro degli Esteri iracheno, Hoshyar Zebari, ha fatto sapere di aver chiesto assistenza militare e di intelligence a Washington, addestratori e droni.
In casa siriana, intanto, chi continua a parlare sono le armi. Dopo l’apparizione pubblica del 4 agosto durante la quale il presidente Bashar al-Assad aveva candidamente affermato che il conflitto si sarebbe risolto sul campo di battaglia e non ai tavoli della diplomazia internazionale, ieri il suo esercito ha segnato un altro punto: la riconquista di Latakia, provincia nord-occidentale a pochi chilometri dal confine con la Turchia, uno dei porti strategici lungo le coste del Mar Mediterraneo e roccaforte del regime.
Latakia è stata presa dopo un assedio cominciato all’inizio di agosto, partendo da un gruppo di villaggi a maggioranza alawita, comunità religiosa a cui appartiene la famiglia Assad. I gruppi armati di opposizione, dalle montagne, avevano lanciato una campagna per la liberazione completa della costa mediterranea, riuscendo a occupare una decina di villaggi alawiti – tra cui Qordaha, città natale dell’ex presidente Hafez Al-Assad – e oggi riconquistati da Damasco.
Il mese scorso venne a galla la notizia di un attacco israeliano al porto di Latakia risalente al 5 luglio: una serie di missili lanciati da navi militari israeliane avrebbero polverizzato depositi di armi e provocato la morte di circa 20 soldati siriani. Secondo quanto dichiarato dall’Esercito Libero Siriano, target di Tel Aviv sarebbero stati i missili russi Yakhont, appena spediti da Mosca a Damasco.
Ulteriore prova che la guerra civile siriana non è più una battaglia tra sostenitori e oppositori interni del regime, ma un conflitto regionale che tocca gli interessi di numerosi attori internazionali, intenzionati ad affondare o a far rimanere a galla il regime di Assad.
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