UMANO e DISUMANO. Come la nostra mente rende il nemico una “cosa”

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Il film Lettere da Jwo Jima di Clint Eastwood (2006) si apre con la scoperta, nel 2005, di una sacca militare sepolta nella sabbia. Si torna indietro nel tempo, e lo spettatore assiste alla terribile conquista dell’isola da parte degli americani. I dialoghi in giapponese, i suicidi per evitare il disonore della cattura, gli eroismi insensati in nome dell’Imperatore, sono tutti segni dell’apparente distanza tra giapponesi e occidentali. Trascorsi sessant’anni, si scopre che nella sacca ci sono le lettere non recapitate dei soldati giapponesi. Esse contengono le stesse preoccupazioni, gli stessi racconti, gli stessi affetti delle lettere degli americani. Il senso più profondo del film è la somiglianza dei soldati, contro tutti i tentativi di presentare il Nemico come un estraneo, un diverso. Gli Amici e i Nemici, per secoli, sono stati costruiti e definiti da barriere culturali e religiose, e dalle varie propagande sbandierate per giustificare le guerre.
La costruzione e diffusione di stereotipi serve a presentare il nemico come una persona lontana, cattiva, meno umana di noi. Negli ultimi anni assistiamo, purtroppo, al caso limite del fanatismo terrorista che uccide solo perché si appartiene a una nazione o a una civiltà che non è quella giusta (nell’attentato dell’11 settembre 2001 sono caduti civili di 70 nazionalità).
Non occorre che storia e propaganda collaborino nel costruire il Nemico. Basta molto meno. Nel 1971 lo psicologo Philip Zimbardo invita 24 volontari, studenti dell’Università di Stanford, e li divide, del tutto a caso, in due gruppi: le guardie e i prigionieri. La polizia del college incarcera i prigionieri in condizioni del tutto realistiche (si può vedere il filmato Quiet Ragein rete). Sembra quasi un gioco, all’inizio, ma poi le cose si mettono male. Le guardie assumono atteggiamenti e modi di fare sempre più aggressivi e trattano male i prigionieri frustrati e sottomessi. Risultato: la cattiveria si può creare in poco tempo. Nei primi anni Sessanta lo psicologo Stanley Milgram chiede ad alcuni studenti di assisterlo e di punire altri studenti, somministrando loro scosse elettriche quando sbagliano una prova. Le scariche elettriche in realtà sono finte e gli studenti simulano sofferenze. Gli assistenti però non lo sanno, e continuano a “punire” i malcapitati con scosse sempre più forti. Solo pochi assistenti si rifiutano, e disobbediscono all’autorità.
Questi due classici esperimenti inaugurano una lunga serie di ricerche sulle condizioni in cui si disumanizza il proprio prossimo. Adrian Ward e Daniel Wegner, Università di Harvard, con Andrew Olsen, Università di Pennsylvania, si sono domandati in un articolo appena uscito sulla rivista
Psychological Science che cosa prova chi è testimone delle cattiverie altrui. Dapprima hanno costruito scale per misurare le risposte a domande come: quanto una persona è in grado di pensare, di soffrire, di emozionarsi? Poi hanno misurato le reazioni dei lettori ad alcune storie.
In una storia Jodie è il capo di Sharon. I giudizi sulle capacità mentali di Sharon quando è trattata bene sono confrontati con quelli ottenuti con una storia in cui Sharon è picchiata da Jodie. Risultato: le persone attribuiscono a Sharon meno capacità di emozionarsi e di soffrire quando è picchiata, rispetto a quando è trattata bene. Fin qui niente di nuovo: il male ci sembra diventare “meno male” se pensiamo che
la vittima non sia in condizioni di rendersi conto di subirlo e di soffrire. Chi assiste alle cattiverie altrui attiva una sorta di meccanismo di difesa.
Gli studiosi si sono poi posti una domanda del tutto nuova: e se la vittima non è una persona normale? In tre storie i protagonisti si trovano in condizioni biologicamente impoverite o nulle: un malato in stato vegetativo permanente, un cadavere e un robot. Si racconta come a questi esseri privi di coscienza ed emozioni si faccia intenzionalmente del male. L’infermiera affama il paziente in coma, l’addetto dell’obitorio infierisce sul cadavere con scosse elettriche, il tecnico distrugge i sensori del robot con un martello. Domanda: un essere vittima di violenze, se è già in parte o del tutto biologicamente dis-umanizzato, viene dis-umanizzato anche psicologicamente? Risposta: succede il contrario. Chi legge le storie pensa che quegli esseri “impoveriti” o artificiali, quando subiscono violenze, abbiano più capacità mentali e più consapevolezza rispetto a quando vengono trattati bene.
Il 13 luglio 1942 a un battaglione di quattrocento riservisti tedeschi, non fanatici come le SS, fu ordinato di sterminare gli ebrei debilitati di un villaggio polacco, i vecchi e i bambini. Il responsabile del battaglione, il maggiore Trapp, disse che l’ordine non era un obbligo. Solo dodici uscirono dai ranghi. E tuttavia molti altri, vedendo gli orrori perpetrati dai compagni, ebbero crisi e smisero. Secondo lo psicologo tedesco Gerd Gigerenzer, che ha studiato le accurate testimonianze dell’episodio, i più non si fecero da parte pur di restare solidali con i compagni e il loro beneamato maggiore. Lo storico Christopher Browning, che ha raccolto le testimonianze dei soldati di Trapp sopravvissuti, documenta come questo episodio e altri analoghi indussero i nazisti a cambiare la strategia di sterminio. Si tenne conto del fatto che i soldati umanizzavano le vittime nel vedere i compagni che uccidevano persone indebolite e inermi. L’Olocausto divenne così l’esito di operazioni parcellizzate, rese anonime e industrializzate.
Questa vicenda drammatica mostra che non basta l’empatia, non basta mettersi nei panni degli altri, per evitare il male. L’empatia deve essere anche diretta nel modo giusto: i dodici si misero nei panni delle vittime e rifiutarono, gli altri nei panni dei compagni e accettarono il loro presunto dovere.
Nel corso del film Lettere da Jwo Jima i soldati giapponesi trovano su un nemico moribondo una lettera. La mamma americana aveva scritto al figlio: «Fa ciò che è giusto perché lo ritieni giusto, e non perché devi farlo».


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