Una moneta comune per uscire dall’euro

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Molti, specialmente a sinistra, continuano a credere che l’euro verrà modificato. Che passeremo dall’attuale euro austeritario a un euro finalmente rinnovato, progressista e sociale. Questo non succederà. Basta pensare all’assenza di qualsiasi leva politica nell’attuale immobilismo dell’unione monetaria europea per farsene una prima ragione. Ma questa impossibilità poggia soprattutto su un argomento molto più forte, che può essere espresso con un sillogismo.
Premessa maggiore: l’attuale euro è il risultato di una costruzione che, anche intenzionalmente, ha avuto come effetto quello di dare tutte le soddisfazioni possibili ai mercati dei capitali e strutturare la loro ingerenza sulle politiche economiche europee. Premessa minore: qualsiasi progetto di trasformazione significativa dell’euro è ipso facto un progetto di smantellamento del potere dei mercati finanziari e di espulsione degli investitori internazionali dal campo dell’elaborazione delle politiche pubbliche. Ergo, conclusioni: 1) i mercati non lasceranno mai che si concepisca, sotto i loro occhi, un progetto la cui finalità evidente è quella di sottrarre loro il potere disciplinare; 2) appena un siffatto progetto cominciasse ad acquisire un briciolo di consistenza politica e qualche probabilità di essere attuato, si scatenerebbero una speculazione e una crisi di mercato acuta che non lascerebbero il tempo di istituzionalizzare una costruzione monetaria alternativa, e il solo esito possibile, a caldo, sarebbe il ritorno alle monete nazionali.
A quella sinistra «che ancora ci crede», non resta che scegliere tra l’impotenza indefinita… oppure l’avvento di quel che pretende di voler evitare (il ritorno alle monete nazionali), non appena il suo progetto di trasformazione dell’euro cominciasse a esser preso sul serio! Bisogna poi chiarire cosa intendiamo in questa sede per «la sinistra»: certamente non il Partito socialista (Ps) in Francia, che oramai con la sinistra intrattiene esclusivamente rapporti di inerzia nominale, né la massa indifferenziata degli europeisti, che, silenziosa o beata per due decenni, scopre solo ora le tare del suo oggetto prediletto e realizza, con sgomento, che potrebbe andare in frantumi. Ma un così lungo periodo di beato torpore intellettuale non si recupera in un batter d’occhio. E così, la corsa alle ancore di salvezza è cominciata con la dolcezza di un risveglio in piena notte, in un miscuglio di leggero panico e totale impreparazione.
Contro la moneta unica
In verità, le scarne idee a cui l’europeismo aggrappa le sue ultime speranze sono diventate parole vuote: titoli di stato europeo (o eurobond), «governo economico», o ancora meglio il «balzo in avanti democratico» di François Hollande – Angela Merkel, sentiamo fin da qui l’inno alla gioia -, soluzioni deboli per un pensiero degno della corazzata Potëmkin che, non avendo mai voluto approfondire nulla, rischia di non capire mai niente. Può darsi, d’altronde, che si tratti non tanto di comprendere quanto di ammettere. Ammettere finalmente la singolarità della costruzione europea, che è stata una gigantesca operazione di sottrazione politica.
Ma cosa c’era da sottrarre esattamente? Né più né meno che la sovranità popolare. La sinistra di destra, diventata come per caso europeista forsennata, si riconosce, tra l’altro, per come le si drizzano i capelli in testa quando sente la parola sovranità, immediatamente ridotta a «ismo»: sovranismo. La cosa strana è che a questa «sinistra qua» non viene in mente neanche per un attimo che «sovranità», intesa innanzi tutto come sovranità del popolo, è semplicemente un altro termine per indicare la democrazia stessa. Non è che, dicendo «democrazia» queste persone hanno tutt’altra cosa in testa?
In una sorta di confessione involontaria, in ogni caso, il rifiuto della sovranità equivale a un rifiuto della democrazia in Europa. Il «ripiegamento nazionale» diventa allora lo spauracchio destinato a far dimenticare questa piccola mancanza. Si fa un gran clamore per un Front national al 25%, ma senza mai chiedersi se questa percentuale – che in effetti è allarmante! – non ha per caso qualcosa a che fare, addirittura molto a che fare, con la distruzione della sovranità, non intesa come esaltazione mistica della nazione, ma come capacità dei popoli di determinare il loro destino.
Cosa resta infatti di questa capacità in una costruzione che ha scelto deliberatamente di neutralizzare, per via costituzionale, le politiche economiche – di bilancio e monetarie – sottomettendole a delle regole di condotta automatica iscritte nei trattati? I difensori del «sì» al Trattato costituzionale europeo (Tce) del 2005 avevano finto di non vedere che l’argomento principale del «no» risiedeva nella parte III, certo acquisita dopo Maastricht (1992), Amsterdam (1997) e Nizza (2001), ma che ripeteva attraverso tutte queste conferme, lo scandalo intrinseco della sottrazione delle politiche pubbliche al criterio fondamentale della democrazia: l’esigenza di rimessa in gioco e di reversibilità permanenti.
Perché non c’è più niente da rimettere in gioco, neanche da rimettere in discussione, quando si è scelto di scrivere tutto e una volta per tutte in dei trattati inamovibili. Politica monetaria, uso dello strumento budgetario, livello di indebitamento pubblico, forme di finanziamento del deficit: tutte queste leve fondamentali sono state scolpite nel marmo.
Come si potrebbe discutere del livello di inflazione desiderato quando quest’ultimo è stato affidato a una Banca centrale indipendente e tagliata fuori da tutto? Come si potrebbe decidere una politica budgetaria quando il suo saldo strutturale è predeterminato («pareggio di bilancio») ed è fissato un tetto per il suo saldo corrente? Come decidere se ripudiare un debito quando gli Stati possono finanziarsi solo sui mercati di capitali?
Lungi dal fornire la benché minima risposta a queste domande, anzi, con l’approvazione implicita che danno a questo stato di cose costituzionale, le trovate da concorso per le migliori invenzioni europeiste sono votate a passare sistematicamente accanto al nocciolo del problema.
La bolla di sapone
Ci si domanda così quale senso potrebbe avere l’idea di «governo economico» dell’eurozona, questa bolla di sapone, che il Ps propone, quando non c’è proprio più niente da governare, dal momento che tutta la materia governabile è stata sottratta a qualsiasi processo decisionale per essere blindata in dei trattati.
(…)
Come semplice esercizio intellettuale, ammettiamo pure l’ipotesi di una democrazia federale europea in piena regola, con un potere legislativo europeo degno di questo nome, ovviamente bicamerale, dotato di tutte le sue prerogative, eletto a suffragio universale, come l’esecutivo europeo (di cui comunque non si prevede quale forma potrebbe prendere). La domanda che si porrebbe a tutti coloro che sognano così di «cambiare l’Europa per superare la crisi» sarebbe la seguente: riescono a immaginare la Germania che si piega alla legge della maggioranza europea se per caso il Parlamento sovrano decidesse di riprendere in mano la Banca centrale, di rendere possibile un finanziamento monetario degli Stati o il superamento del tetto del deficit di bilancio?
Dato il carattere generale dell’argomento, aggiungeremo che la risposta – ovviamente negativa – sarebbe la stessa, in questo caso lo speriamo!, se questa stessa legge della maggioranza europea imponesse alla Francia la privatizzazione integrale della Sicurezza sociale. A proposito, chissà come avrebbero reagito gli altri paesi se la Francia avesse imposto all’Europa la propria forma di protezione sociale, come la Germania ha fatto con l’ordine monetario, e se, come quest’ultima, ne avesse fatto una condizione imprescindibile…
Bisognerà dunque che gli architetti del federalismo finiscano per accorgersi che le istituzioni formali della democrazia non esauriscono affatto il concetto, e che non c’è democrazia vivente, né possibile, senza uno sfondo di sentimenti collettivi, unico capace di far acconsentire le minoranze alla legge della maggioranza; poiché in fin dei conti, la democrazia è questo: la deliberazione più la legge della maggioranza. Ma questo è proprio il genere di cose che gli alti funzionari – o gli economisti – sprovvisti di qualsiasi cultura politica, e che però formano l’essenziale della rappresentanza politica nazionale ed europea, sono incapaci di vedere. Questa povertà intellettuale ci porta regolarmente ad avere questi mostri istituzionali che ignorano il principio di sovranità, e il «balzo in avanti democratico» si annuncia già incapace di comprendere come questo comune sentire democratico sia una condizione essenziale e di come sia difficile soddisfarla in un contesto plurinazionale.
Il controllo dei capitali
Una volta ricordato che il ritorno alle monete nazionali permetterebbe di soddisfare questa condizione, ed è tecnicamente praticabile, basta che sia accompagnato da alcune semplici misure ad hoc (in particolare il controllo sui capitali) e saremo in grado di non abbandonare completamente l’idea di fare qualcosa in Europa.
Non una moneta unica, poiché questa presuppone una costruzione politica autentica, per il momento fuori dalla nostra portata. Ma una moneta comune, questo sarebbe fattibile! Tanto più che gli argomenti validi a sostegno di una forma di europeizzazione restano, a patto ovviamente che gli inconvenienti non superino i vantaggi…
L’equilibrio si ritrova se, invece di una moneta unica, si pensa a una moneta comune, ossia un euro dotato di rappresentanti nazionali: degli euro-franchi, delle euro-pesetas, ecc. Immaginiamo questo nuovo contesto in cui le denominazioni nazionali dell’euro non sono direttamente convertibili verso l’esterno (in dollari, yuan, ecc.) né tra loro. Tutte le convertibilità, esterne e interne, passano per una nuova Banca centrale europea, che funge in qualche modo da ufficio cambi, ma è privata di ogni potere di politica monetaria. Quest’ultimo è restituito a delle banche centrali nazionali e saranno i governi a decidere se riprendere il controllo su di esse o meno.
La convertibilità esterna, riservata all’euro, si effettua classicamente sui mercati di cambio internazionali, quindi a tassi fluttuanti, ma attraverso la Banca centrale europea (Bce), che è il solo organismo delegato per conto degli agenti (pubblici e privati) europei. Di contro, la convertibilità interna, quella dei rappresentanti nazionali dell’euro tra loro, si effettua solo allo sportello della Bce, e a delle parità fisse, decise a livello politico.
Ci sbarazziamo così dei mercati di cambio intraeuropei, che erano il focolaio di crisi monetarie ricorrenti all’epoca del Sistema monetario europeo, e al tempo stesso siamo protetti dai mercati di cambio extraeuropei per l’intermediario del nuovo euro. E’ questa doppia caratteristica che fa la forza della moneta comune.
* L’economista Frédéric Lordon è autore di «La crise de trop. Reconstruction d’un monde failli», Fayard, 2009.
Traduzione di Francesca Rodriguez, copyright Le Monde diplomatique /il manifesto

***

UN ANTIPASTO DAL DIPLò Anticipiamo una parte dell’analisi di Frédéric Lordon, che sarà pubblicata sul numero di agosto di Le Monde diplomatique in uscita con il manifesto.


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