Se l’ipotesi di una cyberguerra è più utile dei missili

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L’allarmata indignazione per le incursioni nella privacy e per i rischi che corrono le democrazie si è scontrata con l’esigenza di proteggere la società civile da minacce di attacchi, specie se di origine terroristica.
Il dubbio che valga la pena di sacrificare un po’ di privacy in cambio di sicurezza si è insinuato anche nelle coscienze democratiche e liberal, in considerazione della gravità del pericolo. Se il cyberterrorismo o una potenza ostile sono in grado di sabotare i nostri sistemi informatici nei campi più diversi (dai trasporti alle banche), dovremmo essere attrezzati per proteggerci e contrattaccare.
A questo proposito, il Washington Post riferisce che, secondo le rivelazioni di Edward Snowden, gli Usa avrebbero condotto nel 2011 ben 231 cyberattacchi a obiettivi sensibili, in particolare contro il programma nucleare iraniano.
In linea teorica, si potrebbe ragionare sulla eventualità di un attacco di questo tipo alla Siria. Si chiuderebbe il ventennio dell’interventismo umanitario o punitivo (dalla Somalia alla Libia) e si aprirebbe il primo conflitto di una nuova era, imposta dal progresso dell’informatica. Tanto più che proprio in queste ore si valutano le minacce di cyberattacchi da parte di Damasco, che ha sviluppato le proprie capacità con il supporto di Iran e Russia.
A prescindere dalla lacerazione delle coscienze occidentali, dall’opportunità politica di un attacco militare di tipo classico alla Siria e dalle imbarazzanti titubanze di alcuni leader mondiali, finora decisi soltanto alla guerra delle parole, avrebbe senso una «punizione» probabilmente più efficace, di sicuro meno gravida di conseguenze per la popolazione civile? Se il «grande fratello» è predisposto alla guerra asimmetrica al terrorismo, è immaginabile una guerra simmetrica a uno Stato-canaglia?
Se sono state a suo tempo concepite armi micidiali in grado di uccidere le persone e risparmiare le cose, genere bomba N, è possibile impiegare, al contrario, armi che distruggano le cose e non le persone, con precisione più alta dei cosiddetti «bombardamenti chirurgici»?
Naturalmente, restano sul tavolo considerazioni strategiche e riserve politiche sull’opportunità di ogni tipo di attacco a Damasco, oggi più complicate dal fatto che nessun leader democratico sembra disposto a premere il grilletto senza l’avallo del Parlamento e dell’opinione pubblica.
Tuttavia, sappiamo che ogni Paese può subire un attacco cybernetico e che alcuni Stati sono in grado di portarlo al cuore di uno Stato nemico. Gli esperti ritengono che soltanto tre Paesi (Stati Uniti, Russia, Cina) sarebbero attrezzati ad altissimo livello per questo genere di operazioni.
Probabilmente, il governo siriano non fermerà le stragi di civili di fronte alla minaccia (verbale) di venire colpito da qualche missile. Probabilmente, continuerà a ricevere armamenti dai propri alleati e a rinnovare gli arsenali che fossero parzialmente distrutti. Ma un cyberattacco potrebbe disarticolarne la capacità di usarli, spezzando sistemi informatici e catene di comando.
Sarebbe lo stadio evolutivo delle guerre dal cielo, degli aerei invisibili, del conflitto a bassa intensità e senza vittime occidentali che tanto piace alle opinioni pubbliche. I risultati deprimenti degli interventi degli ultimi anni hanno dimostrato la scarsa efficacia della superiorità militare e le conseguenze devastanti per le popolazioni civili che si pretende di aiutare e liberare. Forse non è fantascienza immaginare che satelliti e cyberguerrieri possano rivelarsi più utili dei missili. Sempre che siano più intelligenti del nemico.


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