Imprenditori contro la crisi di governo per uno su tre è il pericolo maggiore

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CERNOBBIO «QUESTO è sorprendente per un Paese così pessimista», dice l’ex presidente della Banca centrale europea. Eppure i risultati sono lì: i duecento imprenditori e manager in sala al Forum Ambrosetti, selezionati dall’alta quota d’ingresso e dall’urgenza di riconoscersi fra loro e stringere mani, vedono per la propria impresa un futuro migliore di quello che, in cuor loro, assegnano al paese.
Il Forum Ambrosetti a Cernobbio è il loro rito del rientro e il televoto in sala sulle attese per il prossimo anno, quello che tanto stupisce Trichet,
è lì ad arricchire la liturgia. Ne fa parte un certo ottimismo nelle risposte, che si è ripetuto regolarmente anche mentre il Pil italiano crollava dell’8% in un quinquennio. Ora però c’è qualcosa di nuovo: sono più quelli che prevedono di aumentare l’organico (35%) che quelli che pensano di diminuirlo (33%); è più numeroso il gruppo di chi vuole accrescere gli investimenti (55%) di quello che pensa di ridurli nel 2014. Trichet, alla guida del televoto, è sul punto di scivolare nella scortesia: «Magari qui c’è una rappresentanza particolare — osserva — bisognerebbe vedere gli altri».
Ma il francese non ha ancora assistito alla più politica delle domande alla platea di Cernobbio, quella sul grande rischio che li preoccupa. Qui Trichet ritrova le sue doti di diplomazia, eppure il risultato è ambivalente: il 33% dei grandi manager italiani indica come pericolo maggiore la caduta del governo. Uno su tre teme per la stabilità la stabilità, gli altri no. Un manager, seduto in sala, commenta con perfidia: «Dev’essere il 33% che vive di rapporti con la politica». Resta però preponderante (al 54%) il gruppo che teme di più l’instabilità in Medio Oriente, sia essa legata alla Siria (28%) o a Iran ed Egitto (26%).
Piazza Affari racconta una storia simile. Tutte le Borse sono cadute al crescere delle tensioni su Damasco, ma Milano da inizio anno ha fatto decisamente peggio non solo di Francoforte o Parigi, anche di Atene o Madrid: un altro prezzo pagato all’imprevedibilità del quadro politico. Eppure che siano uomini di finanza, concessionari pubblici, manager di società di rete o grandi avvocati — meno spesso esportatori — molti nel popolo di Cernobbio guardano alla politica ormai quasi con rassegnazione. Aspettano di capire. E, spesso, non vogliono un collasso della “strana maggioranza” solo per ragioni pratiche. C’è il banchiere che ha comprato dalle imprese crediti scaduti verso lo Stato per centinaia di milioni e nota che da luglio i pagamenti si sono moltiplicati per sette con la liquidazione degli arretrati. C’è Nani Becalli Falco,
presidente di General Electric International, che rivendica un primato: «Nell’ultimo anno gli investimenti esteri in Italia sono saliti da uno a quattro miliardi di euro, ma abbiamo fatto tutto noi». Una sola impresa e una sola operazione: l’acquisto di Avio da parte di General Electric. Senza quell’acquisizione, dall’estero sarebbero arrivati solo spiccioli per produrre qualcosa nell’ottava economia del mondo. «C’è troppo da fare per migliorare questo paese — dice Becalli Falco — l’Italia ha bisogno di un governo, qualunque esso sia, non può permettersi di restare senza timone per altri sei mesi in attesa di elezioni».
Il manager di General Electric è convinto che «più in Europa che in Italia» si veda una ripresa: «Siamo fuori dalla rianimazione», è il suo modo di esprimerlo. Non lo pensa solo lui. Federico Ghizzoni, amministratore delegato di Unicredit, si chiede se il suo staff abbia cercato di mostrargli solo imprenditori di successo quando di recente ha incontrato i clienti italiani della banca. «Molti hanno dovuto soccombere in questi anni — nota — . Ma chi ha resistito ora conquista anche il mercato di chi non c’è più, dunque va molto bene».
Dal palco dell’Ambrosetti, anche la consigliera economica del governo tedesco Beatrice Weder di Mauro sceglie di parlare del bicchiere mezzo pieno. Sei anni di crisi hanno operato una selezione «e ora anche certi paesi in crisi, anche se detestano le riforme, iniziano a vederne i frutti». Il costo del lavoro per unità di prodotto, misura della competitività, sta convergendo fra Spagna e Germania. Weder però non cita l’Italia, se non per osservare quanto sia diventando, al pari della Francia, “introversa”. Avrebbe potuto parlare anche del popolo di Cernobbio di fronte all’ennesima quasi crisi di governo.


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