Gaffe e ripensamenti Così Obama si è ritrovato nella trincea diplomatica

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Dopo aver chiesto al Congresso di appoggiare la sua decisione di punire militarmente il regime di Assad per l’uso dei gas, giudicando ormai chiusa la strada di una soluzione politica, adesso è lo stesso presidente Usa a sollecitare un rinvio del voto parlamentare, peraltro già deciso, almeno dal Senato: bisogna dar tempo alla diplomazia di esplorare gli spazi negoziali improvvisamente riemersi.
Una situazione abbastanza inedita quella che si vive in queste ore a Washington con un presidente «guerriero riluttante» fin qui costretto a prendere in considerazione una rappresaglia militare che in cuor suo non vorrebbe scatenare: un leader che coi suoi ripensamenti degli ultimi giorni ha spiazzato non solo gli analisti, ma anche i suoi più stretti collaboratori. A cominciare da Susan Rice e Samantha Power, le due donne che nell’Amministrazione rappresentano l’ala interventista dei cosiddetti «falchi umanitari».
Obama le ha volute al suo fianco rispettivamente come capo dei consiglieri per la sicurezza e ambasciatrice Usa all’Onu. Ma dopo il nulla di fatto al G20 di San Pietroburgo ha lasciato che la Power dichiarasse esaurita la fase dei tentativi negoziali, mentre ancora ieri a Washington la Rice rilanciava in un convegno l’opzione militare proprio mentre uno dei suoi vice, Tony Blinken, dava un primo segnale d’apertura alla proposta russa dalla sala stampa della Casa Bianca.
Prima che Obama mostrasse, nelle sei interviste televisive concesse nella serata di lunedì, di credere davvero nella possibilità di aprire una nuova pista diplomatica, la Washington politica si era chiesta a lungo se la sortita mattutina di John Kerry che aveva innescato l’apertura russa («se i siriani consegnassero le loro armi chimiche non ci sarebbe più bisogno di attaccare») fosse o meno una delle celebri «gaffe» del segretario di Stato. Dopo il «sì» di Obama a un nuovo tentativo negoziale, la domanda è diventata un’altra: un nuovo sforzo diplomatico sotterraneo era già in corso da giorni? A sostegno di questa tesi viene ritirato fuori un articolo del quotidiano israeliano Haaretz che diversi giorni fa aveva descritto un possibile scenario negoziale molto simile a quello che si sta delineando in queste ore.
Lo stesso Obama ha dato la sensazione che qualcosa si fosse mosso già nei giorni scorsi quando ha detto, nell’intervista alla Cnn , che parlando con Putin a margine dei lavori del G20 di San Pietroburgo aveva avuto la sensazione che anche il presidente russo fosse favorevole a levare di mezzo le armi chimiche.
La verità, probabilmente, è diversa e meno suggestiva: il presidente russo, desideroso comunque di evitare una campagna di bombardamenti dagli effetti imprevedibili per il suo protetto Assad, ha capito che anche con un’apertura parziale avrebbe aiutato Obama a togliersi da una situazione difficilissima sul fronte interno, dove i sondaggi segnalano una crescente ostilità dell’opinione pubblica alla rappresaglia annunciata dalla Casa Bianca. E dove, col passare dei giorni, i consensi di deputati e senatori all’opzione militare è andato scemando anziché crescere. Del resto è lo stesso Obama a segnalare il suo disagio quando dice di capire l’ostilità della gente a un nuovo intervento militare e confessa che anche Michelle è contraria.
Quando Kerry ha lasciato intravvedere uno spiraglio, Putin ha fatto il suo passo, convinto che anche un’apertura ancora priva delle necessarie garanzie sarebbe stata accolta con interesse da Obama e dalle cancellerie europee. Così è stato, anche se le prime schermaglie sulla proposta di risoluzione Onu avanzata dai francesi fanno intendere che un accordo non è affatto dietro l’angolo.
Ma la palla è intanto tornata nel campo di Obama che ha dovuto riscrivere gran parte del solenne messaggio alla nazione pronunciato nella notte dalla Casa Bianca. In un momento cruciale per la ridefinizione del ruolo internazionale degli Stati Uniti, il presidente si è trovato nell’inedita condizione di dover parlare allo stesso tempo di guerra e di diplomazia: più spazio per un ultimo tentativo di soluzione pacifica della questione dell’arsenale chimico (non certo della guerra civile siriana) accompagnata da una verifica stringente dell’effettiva distruzione di bombe e razzi al sarin, ma anche il mandato per lo «strike» militare da lanciare in caso di fallimento dell’opzione politica.
Chi oggi si chiede se quella di russi e siriani sia solo una manovra dilatoria deve prendere atto che, anche se continua a invocare il sì del Parlamento a un intervento militare e a spiegare agli americani che solo la credibilità della minaccia di attacco ha spinto la Siria ad ammettere di disporre di armi chimiche e a dichiararsi disposta a distruggerle, oggi anche Obama ha bisogno di prendere tempo. Quanto? È quello che dovrà essere chiarito nei prossimi giorni, anche perché tra poco più di un mese il Tesoro resterà di nuovo con le casse vuote: il Congresso, oggi tutto concentrato sulla Siria, dovrà presto passare a discutere di aumento del tetto del debito pubblico. Pena una ricomparsa dello spettro del «default» della superpotenza.
Massimo Gaggi


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