Lo spettro della diga lassù sghignazza ancora

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Stessa arroganza stessa sicumera, stesso modo di snobbare il parere di chi sa, stessa sottovalutazione degli allarmi delle popolazioni locali, stesso trionfalismo cementizio sulla pelle dell’ambiente. Per questo si defilano da tempo in questo argomento uomini come Marco Paolini, autore della memorabile orazione civile sulla frana del ’63, e Mauro Corona, l’elfo che porta nella penna e nelle mani la memoria di queste montagne, autori senza i quali forse il ricordo del Vajont sarebbe stato rimosso del tutto.
Quella diga intatta che incombe sulla valle del Piave come uno scudo normanno minaccia ancora queste montagne. Pochi sanno che le acque del Vajont sono contabilizzate ancora nel bilancio energetico delle Alpi. La loro mancanza autorizza sciagurati prelievi alternativi, desertifica il Piave, fa del fiume sacro della patria il corso d’acqua più artificiale del mondo. Un deserto di ghiaia. Se il Vajont contasse ancora nella memoria nazionale, non si sarebbe consentito quel “Vajont alla rovescia” subìto dai fiumi del Mugello, letteralmente risucchiati nel tunnel dell’alta velocità Bologna-Firenze. Se avesse cambiato qualcosa nella procedura delle grandi opere, non si imporrebbe a quel modo la Tav alla Val Susa. Se la sicurezza degli italiani contasse davvero qualcosa, il governo non si darebbe tanto da fare per costruire nel cuore di Trieste un terminal di gas liquido ritenuto pericoloso dall’intera comunità scientifica internazionale.
Lo spettro è dunque lì. Trionfa, sghignazza, deride più di allora le popolazioni offese. Ecco perché il silenzio è la sola risposta. Niente inni, niente messe, niente auto blu. Chi vuole ricordare davvero vada lassù di notte, da solo, con la nebbia, tra quelle ghiaie lunari, a sentire la voce dei morti, quando nei boschi non echeggia che il bramito dei cervi in amore, a genuflettersi davanti allo squarcio immane, alla ferita che i signori dell’energia, fino a un minuto prima della catastrofe, si ostinarono a non vedere.


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