Usa, allarme default per il 17 ottobre liquidità ko se non sale il tetto al debito

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Avranno raggiunto il limite massimo dell’indebitamento, e in assenza di un’autorizzazione del Congresso non potranno ri-finanziarsi con l’emissione di nuovi buoni del Tesoro. Di conseguenza non saranno più in grado di effettuare pagamenti.
Lo annuncia il segretario al Tesoro, Jacob Lew, con un gesto formale: una lettera al presidente della Camera, John Boehner.
Il destinatario non è casuale. Proprio alla Camera si sta giocando lo psicodramma politico che può sfociare nell’inverosimile. Certo, lo spettro del default è stato già agitato in precedenza, poi sventato in extremis. Questo potrebbe essere di nuovo un falso allarme. Oppure la volta buona. A metà ottobre, il Dipartimento del Tesoro nella nazione più ricca del pianeta avrà nelle sue casse solo 30 miliardi di dollari. Gliene occorrono circa il doppio, 60 miliardi al giorno, per pagare i propri debiti con i fornitori, per pagare stipendi agli statali, per versare le pensioni, per erogare assistenza medica. E naturalmente per pagare le cedole agli investitori che detengono buoni del Tesoro. Basterebbe fare ciò che il Tesoro ha sempre fatto da quando esiste: vendere nuovi bond per ripagare quelli vecchi. Ma occorre una legge per autorizzarlo. E su questa, è in corso un braccio di ferro alla Camera dove i repubblicani sono maggioranza.
I deputati della destra hanno votato un testo di legge che autorizza il Tesoro a ricominciare le normali operazioni di rifinanziamento sui mercati, a una condizione: che sia abrogata l’intera riforma sanitaria di Barack Obama. Condizione inaccettabile per i democratici. Infatti al Senato, dove il partito del presidente ha la maggioranza, il testo di legge nella versione approvata alla Camera sarà votato solo dopo aver cancellato la parte sulla sanità. E rispedito alla Camera. In questo balletto, il conto alla rovescia verso il fatidico 17 ottobre comincia a preoccupare i mercati. Una crisi di questo genere non ha precedenti. E’ diversa perfino dal celebre “shutdown” degli uffici pubblici, la serrata statale che ebbe luogo per ben due volte sotto l’Amministrazione Clinton (per sei giorni nel 1995, per tre settimane nel 1996). Anche quella volta, all’origine ci fu un braccio di ferro tra il presidente democratico e una maggioranza congressuale repubblicana.
Tuttavia lo “shutdown” è altra cosa dal default. Nel 1995 e 1996 non ci fu un impatto sui mercati finanziari. Stavolta invece si rischia una crisi di fiducia delle Borse. I “shutdown” avvengono quando per mancanza di fondi l’Amministrazione federale deve tagliare spese “discrezionali” che cioè non corrispondono a diritti acquisiti (tra questi ultimi figurano le pensioni ma anche le cedole sui titoli). In quel caso ci sono disagi pesanti per i cittadini perché molti servizi funzionano a singhiozzo o smettono di funzionare. Ma nello scenario del default, tra le prime vittime ci sarebbe l’immensa platea mondiale di investitori in Treasury Bond: il più ricco e liquido mercato obbligazionario esistente. «Sarebbe una ritirata irresponsabile — scrive Lew — da un principio basilare dell’America: siamo una nazione che onora i propri impegni ». Soprattutto quegli impegni derivanti da una montagna di debito pubblico che ha raggiunto i 16.699 miliardi di dollari. E che ha tra i suoi finanziatori anche le banche centrali di altre potenze economiche come la Cina, il Giappone, la Germania, il Brasile o l’Arabia saudita. I sondaggi dicono che gli elettori americani sono risolutamente contrari a questo gioco al massacro. Ma la destra — almeno finora — si comporta come se abbattere la riforma sanitaria di Obama sia un obiettivo talmente importante da valere l’Apocalisse finanziaria.


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