Ad Arcore il vertice a sorpresa con i falchi Ghedini al Cavaliere: farai la fine di Silvio Pellico

by Sergio Segio | 29 Settembre 2013 7:08

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ROMA — È il blitzkrieg , è uno contro tutti, ed è una guerra che non contempla prigionieri. Si vedrà se quella di Berlusconi è stata davvero la mossa della disperazione, «un suicidio» come dicono nel suo stesso partito, o una scelta meditata, coltivata da tempo, e messa in atto dopo aver colto «l’opportunità» che il premier a suo modo di vedere gli ha offerto, bloccando il provvedimento sull’Iva. Di certo la decisione del Cavaliere di far saltare il banco e di ritirare la delegazione del Pdl dal governo è una scommessa giocata sul ritorno immediato alle urne. È una manovra che rischia di avere effetti devastanti non solo sui destini del Paese ma anche del suo stesso movimento. Quale sia l’arma segreta non si sa, anche perché stavolta l’uomo che per venti anni è stato il leader incontrastato del centrodestra non potrà guidare il suo esercito sul campo di battaglia elettorale. Eppure Berlusconi decide di avviare il conflitto, e questa è la storia del giorno più lungo della Seconda Repubblica.
Ore 10
Nella villa di Arcore il Cavaliere riceve alcuni dirigenti Mediaset. Nella sua residenza si trovano già la figlia Marina e Bondi, con loro discute della situazione politica. L’informativa notturna di Alfano sul Consiglio dei ministri e la lettura dei giornali gli hanno confermato ciò che già sapeva: il premier e il capo dello Stato «vogliono mettermi spalle al muro» dopo l’offensiva delle dimissioni in massa dei suoi parlamentari. Il giorno prima, al vertice del Pdl, aveva letto una sua considerazione con la quale spiegava di non avere alcuna intenzione di aprire la crisi di governo. L’accelerazione di palazzo Chigi e la richiesta di un chiarimento davanti alle Camere lo pongono dinnanzi a un bivio: votare la fiducia, senza però avere più alcun potere contrattuale, né sul versante politico né su quello giudiziario, oppure cercare attraverso un’operazione bizantina di attaccare l’esecutivo, con i suoi ministri seduti al banco del governo. «I miei elettori non capirebbero». Squilla il telefono, in linea c’è Cicchitto. «Silvio, devi fare attenzione. Rischi di apparire come il nemico del popolo». Berlusconi ripete di non volere la crisi e chiede al dirigente del suo partito di preparargli una nota, deciderà poi se farla propria con un comunicato o di trasformarla in un videomessaggio. A Roma intanto vanno avanti le trattative tra Pd e Pdl per scongiurare la rottura. L’attivismo è frenetico, Brunetta si consulta con rappresentanti del governo e con gli «alleati», e c’è ottimismo su una soluzione positiva.
Ore 12
Ad Arcore arrivano Verdini e Santanchè, formalmente per discutere della manifestazione da indire per il 4 ottobre in concomitanza con il voto della Giunta di palazzo Madama sulla decadenza del Cavaliere. Il coordinatore del Pdl ha un conto aperto con Berlusconi, perché convinto che non ci sia altra strada della crisi. Come lui la responsabile dell’organizzazione, che il giorno prima aveva tribolato sapendo dell’esito del vertice a cui non aveva preso parte. I falchi tornano a premere sul leader, comprendendo di trovare terreno fertile alle loro argomentazioni. Ma serve un innesco per dar fuoco alle polveri, ed è l’avvocato-deputato Ghedini a farlo. Ostile al governo Letta fin dalla sua nascita («sarà la tua rovina, Silvio»), torna a insistere sulla necessità di rompere gli indugi, usa per grimaldello la situazione giudiziaria del Cavaliere, ritorna sull’inconsistente aiuto giunto dal Quirinale ai suoi guai, e gli prospetta «nel giro di venti giorni» un finale drammatico: «Farai la fine di Silvio Pellico». Quella parole incendiano il Cavaliere, la brace torna a farsi fiamma, ed è allora che viene messo a punto il blitzkrieg . Le linee nemiche hanno lasciato un varco in cui infilarsi: la decisione di non varare il decreto economico e di lasciar partire l’aumento dell’Iva era stato un modo per Enrico Letta di vendicarsi con il Pdl dell’«umiliazione» subita con l’annuncio delle dimissioni in massa proprio mentre si trovava all’Onu. «Lui umiliato?», tuona Berlusconi: «Io fui umiliato nel ‘94, quando mi mandarono l’avviso di garanzia mentre presiedevo il vertice di Napoli». Per il leader del centrodestra è giunto il momento di preparare la dichiarazione di guerra: «Chiamatemi Capezzone». La missione è ancora top secret. Persino Confalonieri e Gianni Letta sono ignari di quanto sta accadendo, e come loro anche il segretario del Pdl non sa nulla.
Ore 16
Alfano — che si trova nella sua abitazione a Roma — riceve una chiamata che lo gela per i contenuti e per i modi. «Apriamo la crisi, Angelino. Ho da leggerti il comunicato che voi ministri dovrete fare vostro». Ma non c’è Berlusconi all’altro capo del telefono, bensì Ghedini, a cui il Cavaliere ha affidato il compito di avvisarlo. È chiaro il messaggio del leader verso il vicepremier, che ascolta la lettura della nota redatta dall’ex segretario radicale: un documento violentissimo nei riguardi del presidente del Consiglio, che evoca — come nella migliore tradizione stalinista — una implicita richiesta di autoaccusa della compagine ministeriale del Pdl. Alfano, stordito e addolorato, respinge il comunicato e non solo perché «ho lavorato fino ad oggi con Enrico nel governo», ma anche perché non intende politicamente suicidarsi. Si apre una trattativa che dura più di un’ora, e tocca a Bondi la stesura di una nuova bozza, quella definitiva.
Ore 18
Berlusconi dirama la dichiarazione di guerra. A stretto giro i suoi ministri si dimettono. Per Alfano c’è solo il tempo di preavvisare il premier, che trasecola: «Ma se stavamo cercando un compromesso…». Anche Napolitano viene avvisato prima che il comunicato sia reso pubblico e non capisce, visto che solo cinque minuti prima Brunetta lo aveva informato che la trattativa era a buon punto. «Non c’è razionalità in questa vicenda», commenta il capo dello Stato: «Se alla dimensione politica si privilegia la dimensione umana, non si può costruire più nulla. Sono dispiaciuto, anche per Berlusconi, ma tutto ciò con la politica non c’entra nulla». Nel frattempo Alfano si mette alla ricerca degli altri ministri. Si trovano subito la De Girolamo e la Lorenzin, che sta passeggiando in riva al mare. Quagliariello è in attesa della partita del Napoli e resta di sale: «Sono pronto a dimettermi ma non sono d’accordo. Perché questo gesto non serve né al Paese né al centrodestra né a Berlusconi. Così ci mettiamo contro quel mondo che vogliamo rappresentare». Resta da trovare Lupi, e si fatica. Il titolare dello Sviluppo economico è a messa con Carron, il leader spirituale di Cl. La scorta gli porta il cellulare in chiesa. «Maurizio ti devi dimettere», e in sottofondo sale il canto dell’Alleluja. «Maurizio, Berlusconi ha aperto la crisi», e dalla cornetta si sente il sacerdote che invita i fedeli a scambiarsi il segno della pace.
La pace non c’è più nel Pdl, che ribolle come una tonnara. Il rischio di una spaccatura è elevato e — chissà — forse messo nel conto dallo stesso Berlusconi, che un anno fa coltivò l’idea dello spacchettamento del partito. «Un partito in mano ai falchi non è il nostro partito», attacca infatti uno dei ministri, che si appresta a chiedere una «verifica interna». Ma a chi, al Cavaliere? Sembra la vigilia dell’otto settembre. Mentre a Milano Verdini e Santanchè festeggiano, a Roma la compagine di governo appena dimessasi va a casa di Alfano, che intanto ha avuto modo di sentire — brevemente — il «dottore». L’ormai ex vice premier, verso cui i suoi stessi amici muovono critiche per non aver vigilato abbastanza sul partito, si trova ora tra Scilla e Cariddi: tra Berlusconi, che comunque continua a volere accanto a sé «Angelino», e le sirene centriste che confidano cambi rotta. La guerra lampo è iniziata, lascerà molti cadaveri sul campo.
Francesco Verderami

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