Da Damasco a Groundzero

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Obama con un occhio all’attacco alle Torri gemelle del 2011 e l’altro alla crisi siriana parla alla nazione e «chiama alle armi» rimotivando l’interventismo «umanitario» degli Stati uniti. Ma apre alla proposta russa che definisce «incoraggiante» LOS ANGELES
Ieri alle 8:45 il presidente Obama ha osservato un minuto di silenzio nel giardino della Casa bianca prima di recarsi ad una cerimonia al Pentagono per rievocare quella «tragica mattina di 12 settembri fa» in cui l’America si svegliò bruscamente in un mondo nuovo, una realtà in gran parte di sua fattura ma che scosse profondamente questo paese interventista e allo stesso momento straordinariamente isolato dal resto del mondo.
Se mai possibile, l’11 settembre, quest’anno è stato ulteriormente significativo per il fatto che un presidente eletto per chiudere le due guerre scatenate da quegli attacchi, si trova a minacciare di intervento militare un antagonista «canaglia», la Siria, in Medio Oriente. Dinamiche insomma dalla forte eco irachena, che dimostrano le difficoltà del successore di Bush nel districarsi da vecchi schemi. Nell’arco di 12 ore, Obama si è trovato dunque a vestire il ruolo sia di compassionevole «consolatore capo» che, la sera prima, di comandante supremo delle forze armate; compito quest’ultimo che gli è da sempre meno consono del primo. Il discorso sulla Siria di martedi, in buona parte superato dagli sviluppi sul campo, in realtà più’ che a quello di un comandante in capo è assomigliato a quello di un consigliere morale, quasi padre spiritruale della nazione. Pacato e accorato, a tratti professoriale, Obama ha preso per mano i suoi concittadini insistendo sulla responsabilità morale di accorrere in aiuto alle inermi vittime delle atrocità chimiche del despota Assad. Evocando a più riprese le orribili immagini di centinaia di bambini rantolanti fra le barcia dei genitori mentre muoiono, annaspando, un orribile morte. Ad un certo punto, in un momento quasi di perversa televendita, ha invitato gli Americani a visionare da sé le immagini e domandarsi «in che mondo vivremo se gli Stati Uniti decideranno di guardare altrove mentre un dittatore viola apertamente le norme internazionali sull’uso dei gas tossici?». Obama ha infatti scelto di limitare la sua arringa alla specifica questione delle armi chimiche e alla necessità di eliminarne la minaccia. Figurararsi se io non ho un «profonda preferenza» per le soluzioni pacifiche ha in sostanza detto Obama – e non poteva mancare la citazione del principale precursore come leader interventista di una nazione isolazionista: «Roosevelt diceva che la nostra determinazione a non farsi coinvolgere da conflitti esterni non ci esime dalla difesa dei nostri principi fondamentali».
Detto tutto questo la vera sostanza di questa presunta chiamata alle armi è stata piuttosto l’ufficializzazione del fronte diplomatico: Obama ha definito «incoraggianti» i segnali provenienti dal piano russo, ha annunciato che oggi Kerry incontrerà la controparte Sergei Lavrov e che lui stesso rimarrà in contatto con Putin mentre con Francia e Inghilterra cercherà un azione concertata del Consiglio di sicurezza per obbligare Assad a consegnare gli arsenali chimici. Nella migliore delle ipotesi Obama potrebbe in teoria intravedere un successo che andrebbe oltre ogni possibile risultato di una limitata incursione aramata: un «armistizio chimico», con la possibilita’ di attribuirsi il merito della dissuasione, passando da interventista isolato a pacificatore globale. Visti i numeri comunque insufficienti oggi ad ottenere l’avvallo del Congresso potrebbe così considerarsi «salvato dal gong». La realtà è diversa. La gestione del negoziato all’Onu di competenza della nuova ambasciatrice Samantha Power si preannuncia da subito assai difficile, sia per la annunciata posizione di Russia e Cina che tenteranno di ammorbidire eventuali sanzioni, sia per l’oggettiva estrema difficoltà di implementare un eventuale accordo sul disarmo, perdipiù nel mezzo di una guerra civile. L’arsenale chimico di Assad sarebbe vasto, composto di magazzini e laboratori sotteranei, diversi impianti di produzione e stoccaggio. La presa in consegna e neutralizzazione di un apparato del genere è un’operazione annosa, la Libia, per dire, che ha firmato la convenzione sulla distruzione delle armi chimiche nel 2004, ad oggi ne avrebbe distrutte appena l’80%; Stati Uniti e Russia in dieci anni hanno distrutto rispettivamente il 90% e 57% dei loro arsenali – i più grandi del mondo. È lecito quindi il dubbio di una tattica dilatoria di Assad con sponda di Putin che esporrebbe Obama alle rinnovate critiche di falchi. Già ieri John McCain reclamava lo schema logoro della guerra per procura: l’armamento e il finanzaimento della Free Syrian Army tentando disperatamente di distinguere fra fazioni «laiche» ed «estremiste» jihadiste di una guerra settaria. Insomma le opportunità per fallire rimangono numerose quanto le incognite, compresa, ora che il dibattito parlamentare è stato rinviato a data da destinrasi, l’autorita’ di Obama di ordinare eventuali sortite militari. È solo una delle numerose aree grige di una vicenda che permane assai ingarbugliata.


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