Dal Rinascimento al Disfacimento industriale

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Ancora a luglio «Il Sole 24 Ore» auspicava la necessità di un «Rinascimento industriale», ma dopo le recenti cronache sui fallimenti di Alitalia e le dismissioni di Telecom si dovrebbe parlare piuttosto di un Disfacimento industriale. I sostenitori del mercato obiettano che sono appunto le regole del sistema a suggerire la vendita di queste imprese, se poi i capitali sono stranieri il non detto è: meglio ancora. Ma ciò che fa riflettere sono alcune preoccupanti analogie tra la vendita di Alitalia e Telecom. Entrambi gli acquirenti, infatti, Airfrance e Telefonica, sono alle prese con la riduzione dei loro consistenti debiti, difficile dunque che intendano farsi carico di quelli delle aziende italiane.
Ma allora quale è l’obiettivo? Per la compagnia francese l’acquisto di Alitalia avverrebbe con uno sforzo finanziario minimo e potrebbe essere un tentativo di contendersi quello che tuttora rappresenta il quarto mercato europeo aeroportuale. Indubbiamente forte sarebbe la tentazione di ridurre i costi spostandone il baricentro intorno a Parigi, almeno per quanto attiene i voli internazionali e una parte dell’apparato amministrativo. Mentre per Telefonica l’appetibilità non è tanto per l’impresa italiana, segnata da bassa innovazione e da un mercato in calo, quanto per gli investimenti latinoamericani che possiede in portafoglio e che rappresentano una situazione ben più dinamica.
Insomma ciò che preoccupa non è la bandiera dei capitali, quanto i probabili effetti sul versante locale. Non stiamo parlando di settori marginali o di retroguardia, quanto di due ambiti centrali nelle società contemporanee come trasporti e comunicazioni. Le ricadute in termini di investimenti saranno modeste se non del tutto al di sotto delle necessità. Curiosa poi appare la proposta di utilizzare Cassa depositi e prestiti per mantenere un controllo pubblico sulla rete infrastrutturale delle comunicazioni, una foglia di fico sui futuri assetti, dato che non esisterà più una compagnia telefonica adeguata per utilizzarla. In assenza di capitali nostrani si ipotizza l’intervento di un soggetto, in qualche misura non privato, ma solo in seconda battuta, sempre dopo che gli assi centrali sono stati sottratti a una effettiva regia pubblica. Ma veniamo a una delle questioni di fondo che danno il senso della demolizione industriale in corso. La crisi infatti non è solo frutto di sottoconsumo, ma anche di una riduzione costante degli investimenti produttivi. Banca d’Italia ci dice che gli investimenti anche nel 2013 saranno in diminuzione. Rispetto al 2012, anno in cui si è sfiorato il 10% della contrazione nell’industria, si ridurranno i ritmi decrescenti in questo segmento, passando a -6.7%, ritmi che rimarranno pressoché identici invece nei servizi con un segno negativo superiore al 6%. Per una società sviluppata e terziarizzata non c’è male. Il problema, dunque, è comprendere la traiettoria di marcia complessiva dell’industria che opera in Italia, senza quella retorica attorno ad alcuni, pochi per la verità, modelli imprenditoriali vincenti. Quante Luxottica ci vorrebbero per compensare i fallimenti di aziende strategiche come Alitalia e Telecom? È necessario ipotizzare uno sviluppo esclusivamente basato sulle esportazioni oppure una strategia che accorci le filiere in una logica fuori mercato? A crisi sistemica è tempo di ragionare in termini corrispondenti.


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Dall’acciaio alle navi, la scatola cinese dei Riva

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IL GRUPPO · 36 siti produttivi, 19 in Italia
Con 21.711 dipendenti, controlla tutti gli stadi della filiera siderurgica Il gruppo Riva Fire Spa è una grande scatola cinese, al cui interno è presente un labirinto di imprese, holding, società  italiane ed estere. Attualmente il gruppo possiede 36 siti produttivi: 19 in Italia (dove viene prodotta la parte prevalente dell’acciaio – oltre il 62% – e dove l’azienda realizza il 67% del proprio fatturato) e altri in Germania, Francia, Belgio, Spagna, Grecia, Tunisia e Canada.

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