Dentro l’apartheid di Hebron occupata

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HEBRON (Cisgiordania). Gli scolari palestinesi corrono veloci lungo il vialetto polveroso che attraversa il cimitero islamico. Sotto c’è la più comoda e ampia via Shuhada ma non possono percorrerla per andare e tornare da scuola. È vietato. Perché passerebbero davanti agli insediamenti israeliani e i coloni non li vogliono da quelle parti «per ragioni di sicurezza», anche se sono soltanto dei bambini. Specialmente in questi giorni in cui la zona H2 di Hebron si riempie di coloni e religiosi diretti alla Tomba dei Patriarchi per la festa ebraica del Sukkot. In basso gli autobus israeliani scaricano altri fedeli. Sopra invece i bambini camminano sul vialetto stretto destinato ai palestinesi per tornare a casa. Un esempio di quella «separazione» visibile ovunque nel resto della Cisgiordania occupata. I palestinesi denunciano «l’apartheid» che si starebbe concretizzando su strade, aree agricole, tra centri abitati grandi e piccoli grazie alle leggi dell’occupante.
Issa Amro, jeans e polo di colore rosso, ci attende non lontano dalla sede di Youth Against Settlements (Giovani contro gli insediamenti), l’organizzazione che ha contribuito a fondare per opporre una resistenza non violenta all’espansione delle colonie e la confisca delle terre. Tra le lapidi del cimitero Issa comincia la sua lecture sulla situazione degli oltre 20 mila palestinesi residenti nella zona H2 di Hebron, costretti a vivere alla condizioni imposte da poche centinaia di coloni israeliani. «È sempre più difficile stare in questa parte della città se sei un palestinese – ci spiega indicando le varie aree dove si trovano gli insediamenti ebraici – qui tutto è organizzato sulla base dell’esigenze dei coloni». In questi giorni, prosegue Issa, la popolazione palestinese se ne sta rintanata ancora di più in casa. Non sono rari, afferma, i raid di gruppi di fanatici nelle abitazioni. «A questo aggiungete i rastrellamenti avviati dall’Esercito (israeliano) dopo l’uccisione (domenica scorsa) di un soldato». Uccisione, non ancora chiarita, alla quale ha risposto subito il premier israeliano Netanyahu dando luce verde ai coloni che da tempo chiedono di entrare nella Casa di Machpela, un edificio conteso dal quale sono stati sgomberati un anno fa dai soldati su ordine dei giudici della Corte Suprema.
Tra i leader della lotta palestinese non violenta, Issa Amro è uno dei più noti. E’ il principale organizzatore della campagna internazionale per la riapertura di Via Shuhada, oggi una strada fantasma con tutti i negozi chiusi e controllata da coloni e soldati, ma che fino a una ventina di anni fa era la via del commercio più vivace di Hebron, in concorrenza con la stessa casbah. Amro, 34 anni, ha trascorso metà della sua esistenza a denunciare gli effetti disastrosi per la popolazione di Hebron delle intese “temporanee” firmate nel 1997 dal leader palestinese Yasser Arafat e da Netanyahu per la divisione della città, nelle zone H1 e H2. Di temporaneo però non c’è nulla in Cisgiordania e così anche a Hebron: l’occupazione che dura da 46 anni, le colonie che nessun israeliano pensa di rimuovere, le zone H1 e H2. Accanto a una Hebron viva, un po’ caotica ma accogliente, c’è una Hebron semivuota, silenziosa, spezzettata da posti di blocco che sono chiamati ad attraversare solo i palestinesi. E conta poco se, di tanto in tanto, la Tomba dei Patriarchi si affolla di «fedeli». Questa parte della città di fatto è morta.
«Buona passeggiata». Suona così strano l’augurio che ci fa uno degli osservatori del Tiph mentre proseguiamo il nostro giro nella zona H2. Ecco, proprio la Tiph, Temporary International Presence in Hebron. Un altro esempio del temporaneo che diventa permanente in Palestina. Non ha mai avuto termine questa missione internazionale, alla quale partecipa anche l’Italia, voluta da Israele e dall’Autorità Nazionale Palestinese, dopo la strage di 29 musulmani nella Tomba dei Patriarchi da parte del colono di Kiryat Arba, Baruch Goldstein, il 25 febbraio del 1994, per assicurare, per qualche anno, un monitoraggio di ciò che accade a Hebron. Così di tanto in tanto si incontrano in strada gli osservatori della Tiph che pattugliano, osservano e scrivono rapporti che non leggerà nessuno. Monitors internazionali disarmati che possono impedire abusi e violazioni. «La mia abitazione è perquisita incessantemente dall’esercito – racconta Issa – ho ricevuto minacce di morte dei coloni e i soldati mi trattano con durezza anche se io non ho mai proposto e attuato forme violente di resistenza». Forse è proprio questo approccio non violento che preoccupa di più l’occupante. Issa non molti giorni fa è stato ascoltato a Ginevra dal Consiglio dell’Onu per i Diritti Umani.
Amro ha costruito una rete di relazioni con dozzine di associazioni e gruppi in tutto il mondo e mantiene rapporti solidi con realtà dell’attivismo israeliano contro l’occupazione. «La solidarietà internazionale è fondamentante per la lotta non violenta palestinese», continua Issa. «Si può tenerla viva grazie ai social media che ci consentono di far conoscere le nostre attività a tutto il mondo». Mentre parla, attraversiamo un posto di blocco. Per Issa e come per tutti i palestinesi di H2 si rinnova l’incubo quotidiano. «Cosa ci fai di nuovo qui, dammi i tuoi documenti», urla una guardia di frontiera israeliana (il corpo paramilitare della polizia). A Issa confiscano la carta d’indentità, lui chiede spiegazioni senza ottenerle, alza la voce. Il militare è teso, telefona al suo superiore. Alla fine arrivano altre guardie di frontiera. Ci intimano allontanarci e intanto fermano un altro giovane. «Tira fuori i documenti e fai in fretta» gli intimano. La madre chiede di lasciarlo andare ma invano. A pochi mentri centinaia di coloni e di «turisti» si dirigono verso gli autobus, felici di aver visitato la Tomba dei Patriarchi nel giorno della festa. Due vite, due esistenze parallele, che neppure si sfiorano in un sistema di crescente segregazione degli occupanti.
Passiamo per la città vecchia, con gran parte dei suoi negozi chiusi. Issa ci dice di guardare verso l’altro. Ci mostra a poco più di 2 metri di altezza le reti di metallo che sono state issate dai palestinesi per proteggersi dai lanci di oggetti di ogni tipo da parte dei coloni che abitano negli insediamenti israeliani adiacenti alla casbah. Una protezione parziale perchè dall’alto piove di tutti, anche l’orina a detta dei palestinesi. Issa ci saluta nei pressi di Bab Zawiyeh, a cavallo tra le zone H1 e H2. Quando arriviamo troviamo decine di giovani palestinesi che urlano e si preparano a lanciare sassi contro le postazioni dell’Esercito israeliano. La polizia dell’Autorità nazionale palestinese in assetto antisommossa cerca di contenerli, di fermarli. Ma è travolta. «Basta, basta occupazione, israeliani andate via», urlano gli shebab palestinesi lanciando pietre. I soldati rispondono con granate assordanti e poi sparando proiettili di gomma. Un palestinese ferito a una gamba viene portato via. Alla fine della giornata i feriti saranno una ventina.


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