Il cantore di Milano Carlo Castellaneta

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Invece tanta immediatezza era solo un trucco: letterario, ma anche dell’anima. Simile a uno scultore che leviga la superficie di un’opera tratta dalle nervature scabrose del materiale, Carlo Castellaneta si divertiva a dissimulare lo sforzo. Nei suoi romanzi, saggi, inchieste, interviste, preferiva distendere sui temi più aspri una patina letteraria leggera e godibile, una scrittura piena di umori e rassicurante, salvo poi indirizzare i lettori verso territori inesplorati.
Questa sua duplicità era già nelle radici: pugliese per parte di padre e milanese dal versante materno; meneghino di nascita che sentiva piuttosto d’esserlo per adozione. Il motto «milanesi si diventa», insomma, valeva anzitutto per lui, benché già il cognome che portava — Castellaneta — richiamasse la sua metà meridionale.
Soltanto negli ultimi dieci anni, quando la vena letteraria sempre copiosa si era fatta rara, Carlo Castellaneta aveva deciso di lasciare Milano per il Friuli, ed è stato lontano dal Duomo, a Palmanova, poco dopo il suo ottantatreesimo compleanno, che se ne è andato in seguito a una complicazione polmonare. Un’assenza tanto discreta, la sua, da indurre i vecchi amici del «Corriere» — il giornale con cui si è identificato da sempre per «milanesità» e dal quale rispondeva ogni sabato alle lettere dei lettori — a chiedersi di tanto in tanto perché non si facesse più vedere e che cosa stesse combinando.
Ma la vastità dell’opera resta a testimoniare che, durante la sua carriera, ha combinato tantissimo: più di cinquanta titoli, equamente distribuiti tra Mondadori e Rizzoli, spesso di successo popolare, ma anche capaci di far discutere la critica. Certo, il suo profilo da cantore di Milano continua a identificarsi con titoli emblematici come Porta Romana bella, Navigli, Una città per due, Amare Milano. L’ambientazione di tante sue storie è intrisa di colori da pittura lombarda — il critico Giancarlo Vigorelli lo assimilava a Gola e Tosi — e affine al teatro meneghino ottocentesco di Bertolazzi e Ferravilla. E nei suoi articoli, come negli interventi pubblici, traspariva un rimpianto sempre più forte per quel che la città era stata, ma aveva smesso di essere.
Eppure la sua cifra più intima resta affidata a romanzi problematici e «dissimulatori». Basti pensare a uno dei più famosi: Notti e nebbie, del 1975, dal quale Marco Tullio Giordana avrebbe tratto uno sceneggiato tv di successo. Il protagonista, Bruno Spada (in televisione Umberto Orsini) è commissario di polizia ai tempi della Repubblica Sociale. Duro, spietato, cinico, ricattatore, anche se progressivamente corroso nelle sue certezze dalla brutalità degli avvenimenti. Ora, la correttezza politica degli anni 80 si sentì in dovere di modificare il finale televisivo, mandando il commissario davanti al plotone d’esecuzione, decretando la sua giusta pena e imponendo la catarsi allo spettatore. Ma il vero Spada, quello creato da Castellaneta, non finiva così: sopravviveva felicemente grazie alle amicizie influenti negli ambienti della Resistenza, dimostrando così che buoni e cattivi restano divisi da un filo sottile, e l’animale umano, al fondo, non cambia mai.
Ancora, in un romanzo del 1980 di tutt’altro genere, Villa di delizia, la storia ambientata a cavallo tra ‘800 e ‘900 sembra rispecchiare all’inizio il classico dramma borghese in stile Gattopardo, con acquerelli del tipo: «Spento il lume, sono rimasta alla finestra della camera, contemplo lo specchio nero del laghetto di San Marco, il casotto del tagliapietre, gorgoglia il naviglio dietro le chiuse, l’acqua che in maggio odora di creta, un’inquietudine, nelle vene, che ogni primavera porta con sé». Poi tutto vira bruscamente: e il lettore si ritrova in una «villa di delizia» (come venivano chiamate le ricche dimore della Brianza) dove si scatena un triangolo amoroso rovesciato, in cui coniugi borghesi e ragazza del popolo consumano nello stesso letto le loro voglie, e l’«erotoelegìa» — come venne definita — si conclude in una Milano privata dell’innocenza, segnata dagli scioperi, violenze e repressioni del 1898.
Questo Castellaneta pudicamente impegnato, pronto a occuparsi anche di camorra trapiantata al nord (Vita di Raffaele Gallo) e di terrorismo (Ombre), resta il meno frequentato, ma non è secondario. Ritornò in vari elogi pubblici dell’artista «provocatore», e nella raccolta di testimonianze Il fantasma della libertà, dove evocò la formazione politica destinata a tradursi nel motto: «Senza libertà, niente giustizia».
Tanti Castellaneta, dunque. Ma nessuno intimo e a proprio agio quanto il frequentatore di via Solferino. Dove il suo critico principe fu Carlo Bo (spesso affiancato da Giuliano Gramigna e Giulio Nascimbeni). Ed è appunto di Carlo Bo, nel 1978, un giudizio sul romanzo Progetti di allegria che può valergli da epigrafe: «Questa sua Milano è proprio vera».


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