Il caso Snowden tra Brasile e Stati uniti

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Dilma ha aperto gli interventi dei capi di stato, parlando dopo Ban Ki-moon e il presidente della sessione, John Ashe: una tradizione in uso, inaugurata dal Brasile con il proprio ambasciatore Oswaldo Aranha, nel 1947. «L’argomento secondo il quale le intercettazioni illegali mirano a proteggere i paesi dal terrorismo non tiene. – ha dichiarato la presidente brasiliana – Affrontiamo, presidente, una situazione di grave violazione dei diritti umani e delle libertà civili: intercettazioni di informazioni riservate sulle attività aziendali, e in particolare mancanza di rispetto per la sovranità nazionale». E ancora «Internet non può essere usato come arma da guerra, il diritto alla sicurezza di un paese non può mai essere assicurato violando i fondamentali diritti civili di altri paesi».
L’ex consulente Cia, Edward Snowden, ha rivelato che l’Agenzia per la sicurezza nazionale nordamericana (Nsa), per cui lavorava, ha carpito anche segreti economici e dati privati, in nome della «guerra al terrorismo». Il Brasile – importante snodo di comunicazioni per tutta l’America latina – era al centro di una vasta rete di intercettazioni illegali. In tutto il Sudamerica hanno spadroneggiato, al di sopra del diritto e della sovranità degli stati, numerose basi illegali, alcune delle quali fornite anche di personale militare operativo. In Brasile – ha rivelato Snowden – la Nsa ha spiato la vita privata della presidente e l’andamento economico dell’impresa petrolifera di stato, Petrobras.
Nel suo discorso, il presidente Usa Barack Obama ha fatto un breve riferimento al Datagate, difendendo l’efficacia del programma di sorveglianza nordamericano: «La conseguenza di questo lavoro e della cooperazione dei nostri alleati e partner è che il mondo è più stabile di cinque anni fa», ha affermato. Obama ha tuttavia precisato che il suo paese ha cominciato a rivedere le modalità attraverso le quali l’intelligence reperisce informazioni «per trovare un equilibrio tra le preoccupazioni legittime sulla sicurezza dei nostri cittadini e le inquietudini sul diritto alla privacy». Le stesse spiegazioni fornite dagli Usa dopo le proteste del Brasile, ritenute insufficienti da Rousseff, che per questo aveva annunciato il rinvio della prevista visita di stato a Washington, il 23 ottobre. Quella di Rousseff – la prima di un presidente brasiliano in quasi due decadi – era l’unica prevista da Obama per questo anno. Il Brasile aveva anche sospeso i negoziati per l’acquisto dagli Usa di aerei multi funzione, un contratto di quattro miliardi di euro. Decisioni da cui Dilma spera un positivo ritorno di immagine in vista delle prossime elezioni: per recuperare quella parte di elettorato più di sinistra, deluso. Rousseff è però anche interna al nuovo clima che soffia in quella parte di America latina governata da presidenti socialisti. E se anche il Brasile non ha offerto asilo politico a Snowden – attualmente rifugiato in Russia – ha però dato protezione al giornalista che ne ha raccolto le rivelazioni e che continua a diffonderle, Glenn Greenwal.
Washington spiava anche i suoi alleati, sia in Europa che in America latina ( anche il Messico e la Colombia). A reagire contro le ingerenze nordamericane e a portare le proprie proteste all’Onu è stato però il campo socialista. Ecuador, Venezuela, Nicaragua e Bolivia hanno offerto fin da subito asilo politico all’ex tecnico informatico della Nsa. Evo Morales, presidente della Bolivia ha subìto per primo le ire di Washington mentre rientrava da Mosca nel suo paese, ai primi di luglio. Allora, diversi paesi europei gli negarono il sorvolo nei propri spazi aerei, obbligandolo ad atterrare a Vienna e a rimanervi per 11 ore: gli Usa sospettavano che nascondesse Snowden sul suo aereo presidenziale.
E mentre l’Ecuador denuncia all’Onu «le mani sporche della Chevron», Morales accusa le politiche Usa «che provocano danno all’umanità» e unisce la sua voce agli altri presidenti sudamericani che chiedono una «profonda riforma» del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite.


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