Il Fondo strategico batta un colpo
Su Telecom, com’era facile prevedere, lo scontro è a tutto campo e le sorprese non mancheranno. Ma comunque vada a finire, con gli spagnoli di Telefonica come azionisti di controllo oppure no, con l’amministratore delegato Franco Bernabé alla guida dell’azienda oppure senza, è fuori discussione che per quanto riguarda il sistema Italia il nodo degli investimenti per lo sviluppo della banda larga è d’importanza fondamentale. Anzi, strategica. Ecco perché il pensiero corre al Fondo strategico italiano, costituito un paio di anni fa proprio per sostenere le iniziative da cui dipende il futuro del Paese. Perché non è pronto a mobilitarsi per assicurare gli investimenti necessari? Una possibilità è che grandi manovre siano in corso dietro le quinte, magari coinvolgendo anche la controllante Cassa depositi e prestiti. Ma, se fosse davvero così, è arrivato il momento di uscire allo scoperto e darne conto.
Di sicuro, ormai da qualche tempo, il Fondo strategico è sul banco degli imputati. Sulla carta ha capitali molto rilevanti, fino a 7 miliardi di euro, ed è nato proprio per intervenire in situazioni d’emergenza per il Paese. «Grandi attese, piccoli risultati», giudica uno dei principali promotori, che ora non è più della partita. E aggiunge: «Finora il Fondo si è limitato a qualche intervento sporadico e di scarso impatto, senza la capacità di lasciare il segno». Così, per esempio, vengono definite le partecipazioni acquistate nella società di servizi Hera di Bologna, nella Kedrion del gruppo Marcucci di Lucca (leader nella produzione di plasma) e le trattative per l’entrata in Versace a fianco della famiglia fondatrice.
Altrettanto diffusa, tra i banchieri d’affari, è la constatazione di avere sempre più frequentemente il Fondo strategico come concorrente nella ricerca di operazioni che hanno come traguardo il ritorno degli investimenti nel breve termine, la ricerca di redditività in quanto tale, senza obiettivi di ampio respiro. L’accusa, nei confronti dell’amministratore delegato, Maurizio Tamagnini, è «di continuare a muoversi esattamente come quando era alla guida di Merrill Lynch». Al contrario la missione del Fondo è d’intervenire nell’interesse del sistema, magari perfino sacrificando margini di profitto.
Le occasioni in proposito non sono mancate, non mancherebbero e non mancheranno. Perché il Fondo non è intervenuto evitando che aziende dal marchio storico venissero cedute agli stranieri? Perché si è dimostrato incapace di finanziare società con prospettive e ambizioni importanti ma in crisi di liquidità? E, soprattutto, perché non ha contribuito agli investimenti nelle infrastrutture di cui il Paese ha tanto bisogno? «Nulla di tutto ciò è stato fatto», viene detto, «ed è arrivato il momento di una svolta, magari cominciando dalla banda larga».
L’aspettativa, più in generale, è che Tamagnini metta mano al portafoglio andando nelle tre direzioni indicate. Prima di tutto occorrono interventi per lo sviluppo delle infrastrutture esistenti o per realizzarne altre. Poi è necessario evitare che aziende italiane con marchi storici e storie di successo finiscano sotto il controllo di capitale estero. Infine c’è il fronte delle iniziative che servirebbero al rilancio di settori chiave per il Paese come il turismo, che ha visto dissolversi un patrimonio significativo di aziende italiane finite male oppure ingloriosamente.
La difesa di Tamagnini respinge l’accusa di puntare sulla redditività trascurando gli interessi di sistema. L’entrata nel capitale della Hera di Bologna, per esempio, ha il significato di rafforzare una società che darà un contributo importante alla concentrazione in un settore, quello della fornitura di servizi, troppo frammentato. L’operazione Kedrion consolida un campione nazionale nel trattamento del plasma.
Altrettanto radicata è la convinzione che la partita delle tlc, con particolare riferimento agli investimenti nella banda larga, sia troppo grande per essere giocata dal Fondo. Sulla carta i miliardi disponibili sono 7 ma, in realtà, ne sono stati versati soltanto 4. Almeno finora. Alcuni investimenti sono stati fatti e altri significativi sono in arrivo, dall’entrata in Versace a quella nel capitale della Sia, la Società interbancaria per l’automazione. In più il destino delle tre Ansaldo di Finmeccanica è ancora tutto da definire. Sono in vendita energia, trasporti e segnalamento ferroviario con gruppi esteri candidati all’acquisto ma con la comunità genovese sul piede di guerra, dall’arcivescovo Angelo Bagnasco al sindaco. Per questo la possibilità che finisca per intervenire il Fondo è concreta.
La conclusione è che in cassa non resta molto e mancano le risorse per investire nelle tlc, che richiedono investimenti molto, molto elevati. Certo c’è la possibilità che il Fondo faccia da capofila nella ricerca dei capitali necessari. Ma gli interventi nella banda larga e nella rete, viene detto, si prestano più all’impegno diretto del principale azionista, la Cassa depositi e prestiti. In fondo la banda larga può rappresentare per il Paese quello che sono state le autostrade nel dopoguerra: l’asse portante dello sviluppo, finanziate all’epoca dall’Iri con emissioni obbligazionarie.
Fabio Tamburini
Related Articles
Torino. Un rilancio «armato» per Mirafiori
Mentre Fca si riavvicina a Confindustria l’unico progetto nuovo è Leonardo con Neuron: un veicolo di combattimento senza pilota
Fiat: addio Fabbrica Italia dobbiamo essere competitivi
“Saremo comunque responsabili” Il sindacato: intervenga il governo
Gli autonomi a partita Iva sono sempre più poveri
Una ricerca della Cgia di Mestre indaga il risvolto della retorica sulle start up e dell’auto-imprenditorialità. Gli autonomi sono lavoratori, e non imprenditori, senza tutele sociali