IL GOVERNO E IL NODO DELLA RICERCA

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I bilanci di previsione (!) 2013 verranno così presentati a fine novembre, un mese prima della chiusura dell’esercizio. L’incertezza regna sovrana anche tra imprese e famiglie: non sanno quali tasse e quale ammontare dovranno pagare. Circolano tanti acronimi, che iniziano immancabilmente con un Ta come tassa (Tari e Tasi tra i più gettonati), l’unica cosa certa è che il nuovo involucro avrà un nome inglese, forse più accattivante. Il decreto varato dal governo martedì scorso è stato riscritto prima di andare in Gazzetta ufficiale, introducendo, tra le altre cose, l’ennesima clausola di salvaguardia: se le fantasiose coperture trovate per abolire la prima rata dell’Imu 2013 non si rivelassero all’altezza, fra quattro mesi scatteranno aumenti automatici di Irap, Ires e accise. Per scongiurare questa eventualità bisognerà ovviamente che questo governo sia in carica. È forse questo il fine ultimo della clausola: serve a salvaguardare il governo, ad accordargli lunga vita nonostante un breve mandato.
Nel frattempo le energie più vitali del paese non vengono affatto salvaguardate. Anzi se ne vanno. L’ultimo episodio è quello di Wise srl, premiata lo scorso anno ad Aarhus come la migliore start up europea nelle innovazioni di grande sviluppo. Nata da uno spin-off della Statale di Milano, cercava mezzo milione di euro (un ottavo dello stipendio di base, tra l’altro più che dimezzato, di Kakà) di finanziamenti per proseguire le ricerche sull’uso di nanotecnologie nella cura di un’ampia gamma di patologie. Le banche italiane, prodighe nel concedere finanziamenti ben più consistenti a palazzinari inquisiti e finanzieri falliti, non l’hanno ritenuta meritoria di credito. Il Fondo Italiano di Investimento e il Fondo Strategico Italiano della Cassa Depositi e Prestiti non devono averla ritenuta un’italianità strategica. Così, alla fine è stato un fondo tedesco ad accordare il finanziamento, imponendo però che impresa, brevetti e ricercatori si trasferissero in Germania.
Difficile trovare qualcosa di più strategico per il nostro paese del capitale umano. Non possiamo farne a meno per tornare a crescere. Eppure non facciamo nulla per migliorare un bilancio disastroso: per ogni cervello che riusciamo ad attrarre, otto se ne sono andati. La posizione dell’Italia nella competizione mondiale per attrarre talenti è, per certi aspetti, ancora peggiore di 50 anni fa, quando il fisico Giovanni Piovani, allora presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, lanciava il campanello d’allarme: “Nei giovani sempre più si radicherà il desiderio di andare fuori dal Paese pur di trovare condizioni e mezzi scientifici adeguati alla loro ansia e alle loro necessità di ricerca”.
Allora, come oggi, chi faceva ricerca in Italia si trovava di fronte a vincoli di bilancio stringenti e alla miopia di una classe dirigente incapace di capire il valore dell’investimento in ricerca, un “bene di lusso” per De Gasperi. Allora, come oggi, la ricerca più avanzata veniva in gran parte finanziata dal-l’estero, da fondazioni private come la Rockfeller Foundation o agenzie come l’Atomic Energy Commission. Ma c’era comunque l’idea di un paese in forte crescita economica — che prima o poi avrebbe permesso anche a noi di acquisire “beni di lusso” — e di una rivoluzione culturale in atto, in grado in un tempo non troppo lontano di far capire a tutti il valore economico della ricerca scientifica, soprattutto di quella di base. Nascevano così, grazie al volontarismo di scienziati come Adriano Buzzati Traverso (il cui impegno instancabile viene ricostruito, passo per passo, in un bel libro di Francesco Cassata, “L’Italia Intelligente”) centri di eccellenza come il Laboratorio internazionale di genetica e biofisica di Napoli. Sarebbero durati poco perché la rivoluzione culturale non ci sarebbe poi stata e molti dei ricercatori che fornivano la massa critica a questi centri sarebbero emigrati in Svizzera e poi negli Stati Uniti. Ma quel che conta è che allora c’era una speranza di cambiamento, in grado di spingere molti nostri scienziati a investire sull’Italia, malgrado tutto.
Oggi questa speranza non c’è più. Difficile farsi illusioni in un paese in cui non si fa nulla per tornare a crescere, destinato solo fra 10 anni a raggiungere i livelli di reddito pro capite del 2007. Un paese poi in cui non si tiene in alcun conto la ricerca scientifica. L’ultimo
esempio lo abbiamo avuto con il voto di Camera e Senato di qualche settimana fa che impone vincoli irrazionali alla sperimentazione biomedica sugli animali, portandoci fuori dall’Europa e dalla comunità scientifica internazionale. Quel che è più indicativo è il fatto che il Parlamento abbia deciso senza neanche sentire la necessità di consultare chi fa ricerca biomedica in Italia: nessuna audizione, nessun parere richiesto. Al contrario, a Silvio Garattini, uno dei più grandi scienziati italiani, viene chiesto di non parlare in pubblico del problema per non urtare le suscettibilità degli animalisti. Ci si condanna così a non poter sperimentare terapie per malattie oggi incurabili, fra cui il cancro e le patologie da dipendenza. Lesley Rochat, la ragazza sudafricana che nuota con gli squali tigre per convincere tutti che non sono pericolosi, può decidere di correre il rischio di morire in nome della difesa di quella specie animale. Qualcuno può ammirarla, altri considerarla dissennata.
Ma perché mettere un intero Paese nella sua condizione?
Il segno più evidente della perdita di speranza nella ricerca è nelle scelte dei giovani ricercatori italiani che hanno ottenuto, nel luglio scorso, un finanziamento dell’European Research Council. Il finanziamento è legato a un particolare ricercatore, che può decidere dove utilizzarlo anche spostandosi da una istituzione a un’altra nel corso dei quattro anni in cui fruisce dei fondi. Tra i 287 vincitori, solo 8 ricercatori (meno del 3 per cento) hanno scelto l’Italia come sede dove svolgere la propria ricerca. Tra questi, un solo straniero mentre tra i 17 italiani che hanno vinto il grant, ben 10 hanno deciso di utilizzarlo in altri paesi. Il messaggio è forte e chiaro: l’Italia non è un paese per chi fa ricerca.
Il governo Letta può continuare nel solco delle classi dirigenti che hanno guidato il Paese nel Dopoguerra, mettendo la testa sotto sabbie e cemento e prestando attenzione quasi solo a chi ha rendite immobiliari da proteggere. Se, invece, vuole dedicare nella sua agenda anche un minimo di attenzione al futuro, deve prendersi la responsabilità di discernere ciò che ha potenziale di ricerca da ciò che è mero presidio di potere locale, distinguere chi vive per la ricerca, prima ancora che della ricerca, dalle baronie, evitando nel modo più assoluto di spargere a pioggia le poche risorse disponibili. La valutazione della ricerca completata dall’Anvur nel luglio scorso fornisce al governo il supporto per interventi selettivi di questo tipo. Il fatto importante è che la quota di finanziamenti attribuiti sulla base di queste valutazioni deve aumentare significativamente perché, con le regole attuali, si rischia di premiare proprio quegli atenei in cui un terzo dei docenti non ha pubblicato un saggio che sia uno nel giro di 7 anni. Bene anche concedere ai dipartimenti che dimostrano di fare davvero ricerca maggiore autonomia nel reclutamento, ad esempio permettendo loro di offrire abilitazioni con procedure d’ateneo, senza dover necessariamente passare attraverso i concorsi nazionali. Un segnale importante di svolta si avrebbe anche emettendo un bando nazionale per assumere i migliori ricercatori (italiani o stranieri) che decidono di trasferirsi in Italia, con profili di eccellenza. Numeri piccoli, ma molto influenti per creare valore e lavoro. Le candidature dovranno essere proposte dalle università, e le decisioni prese da commissioni di settore cui partecipino scienziati di tutto il mondo, tranne quelli operanti in istituzioni universitarie italiane, per ovvi conflitti di interesse. È il modello delle Canada excellence chairs, replicato con successo in Catalogna con l’Icrea (www. icrea. cat). Anche nel mezzo della crisi, nel 2012, sono riusciti a reclutare 13 ricercatori di livello internazionale. Per cambiare registro dobbiamo rafforzare le aree in cui abbiamo già un ruolo non secondario nella ricerca mondiale. Una parte poco commentata del rapporto Anvur mostra che, nei confronti internazionali, soprattutto le scienze mediche, la fisica teorica e l’ingegneria industriale non sfigurano. Altrove bisogna ancora costruire quella massa critica che da noi non c’è. Ci vuole tempo per farlo. Se i rinvii per il governo sono una forma di assicurazione, per la ricerca hanno il sapore acro dell’addio.


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