La seconda vita di Google

by Sergio Segio | 30 Settembre 2013 5:58

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NEW YORK. Ha festeggiato i suoi quindici anni inaugurando un nuovo mestiere che sa di antico: la produzione industriale di telefonini sul territorio americano. Google vuole sedurre anche i suoi detrattori progressisti, con un’operazione di salvataggio-recupero della classe operaia. A Fort Worth, in Texas, ha inaugurato la prima fabbrica di smartphone interamente made in Usa: 2.500 colletti blu fabbricano centomila pezzi a settimana, sotto il marchio della controllata Motorola. Un pezzo di reindustrializzazione, l’inversione di tendenza dopo i decenni delle delocalizzazioni verso l’Asia. «Google è questa cosa qui — dice il suo presidente Eric Schmidt — è un’azienda che vive di sfide e di scommesse. Tra le scommesse ce n’è una sul futuro manifatturiero dell’America. È un’iniziativa storica, che cambierà la percezione degli Stati Uniti». O forse un’altra geniale trovata di relazioni pubbliche.
All’età di un adolescente, sono tante le sfide che Google ha già vinto. Anche se i suoi fondatori Larry Page e Sergey Brin non hanno mai avuto il carisma di Steve Jobs, e neppure l’aureola da pionieri di Bill Gates, sul terreno dei risultati sono loro a schiacciare i rivali. Al compimento del suo 15esimo anno nessun’altra impresa hi-tech poteva esibire queste cifre: 290 miliardi di valore in Borsa, 57 miliardi di fatturato, 44.800 dipendenti. Per quanto oggi faccia notizia soprattutto con iniziative avveniristiche molto lontane dalla sua vocazione — ricerche sulla longevità umana o Google Glass, auto che si guida da sola e riconoscimento della voce umana nell’interazione con i gadget digitali — la forza economica di quest’azienda rimane legata al suo dominio nei motori di ricerca.
Da quando a pochi anni dalla nascita sbaragliò tutti i predecessori, nomi consegnati alla preistoria come AltaVista, il motore di ricerca Google è diventato la nostra bussola su Internet, due terzi dell’umanità lo usano per orientarsi nel cyberspazio e puntare rapidamente al loro obiettivo. Perciò, anche la prossima vita di Google riparte da qui: un big bang che moltiplicherà
la potenza, la duttilità d’uso, l’efficienza e l’utilità del motore di ricerca. Per annunciarlo, l’azienda ha organizzato un “evento” nello stesso garage di Menlo Park, nella Silicon Valley californiana, dove Page e Brin crearono per la prima volta nel 1998 il loro motore di ricerca. La novità anche questa volta sta nell’algoritmo, cioè il meccanismo di base che guida le nostre ricerche online. Il nuovo algoritmo in codice di chiama Hummingbird — l’uccello tropicale colibrì, uno dei più minuscoli che esistono in natura, circondato da leggende sui suoi poteri magici dall’origine del creato, soprattutto nella tradizione azteca. La missione di Hummingbird: riuscire a rispondere velocemente e in modo esauriente alle nostre richieste sempre più complesse, lunghe, articolate. Sotto la direzione del vicepresidente Amit Singhal, i giovani cervelli di Google stanno lavorando perché l’algoritmo “capisca” il linguaggio umano nella sua espressione spontanea, naturale, anche ambigua o confusa. In un futuro prossimo, non dovremo più costringerci a semplificare il nostro pensiero, come facciamo oggi digitando nella casella del motore Google solo poche parole, o una frase ridotta a uno scheletro essenziale. Parleremo a Google come parliamo tra noi umani, con delle frasi vere, e “lui” coglierà sfumature, dettagli. Le nostre ricerche saranno espresse come domande: «Quante volte l’America ha inviato militari in Medio Oriente? » (invece dell’esercizio attuale in cui siamo costretti a un linguaggio rozzo, accostando Usa+militari+ Medio Oriente). Queste innovazioni nell’algoritmo potranno convergere con il progresso nella comprensione della voce umana, nonché il traduttore automatico: tutti software già previsti in dotazione al Google Glass.
La palestra aziendale dove si lavora ai progetti più futuribili è la divisione Google X. Da quel settore è germinato appunto Google Glass, l’occhiale che in futuro potrebbe sostituire ogni computer e smartphone servendoci da “segretario universale”, chiave d’accesso a tutto lo scibile umano, a tutte le funzioni di Internet (e che ho collaudato in anteprima mondiale per Repubblica a fine luglio). Project Loon, altra creatura di questo laboratorio d’idee, userà dirigibili aerostatici per “trasmettere” banda larga e accesso Internet nelle regioni più remote del pianeta. Calico, è il nome della società che si cimenta con la rivoluzione della longevità e i suoi benefici potenziali, vuole spingerne la durata ben oltre i limiti attuali, fino a “giocare” con l’idea di una quasi-immortalità.
Page definisce questi progetti «lanci verso la luna». Un altro dirigente, Ram Shriram, che gestisce il ramo venture capital per investire in talenti nuovi all’esterno del perimetro aziendale, precisa che «non tutti i lanci verso la luna riescono, non è possibile che ciascuno di questi progetti diventi The Next Big Thing, ma qualcuno lo sarà». È il principio su cui funziona da decenni la Silicon Valley — devi tentare dieci volte, e fallire nove, per diventare il prossimo Steve Jobs — e Google ha le spalle abbastanza larghe per sopportare un ampio numero di insuccessi. Le vittorie non si fanno desiderare neanche troppo. YouTube è diventato il più grande sito di video mondiale. Il software Android domina negli smartphone, con l’80 per cento della quota di mercato. Google Maps continua ad avere la leadership nel suo settore, e si sta evolvendo con la mappatura tridimensionale. Soprattutto, il business centrale di Google che rimane il suo motore di ricerca, continua ad avere tali margini di profitto da consentire ogni sorta di esperimento.
I primi quindici anni di vita sono stati all’insegna della raccolta d’informazione, i prossimi potrebbero avere come baricentro l’applicazione delle informazioni. Immaginarsi un incrocio delle app che usiamo sullo smartphone e su altri gadget, automobile inclusa: e all’ora in cui guidiamo dall’ufficio per tornare a casa un promemoria vocale ci ricorda che dobbiamo passare a ritirare i bambini dalla piscina, le camicie dalla tintoria, la cena pronta ordinata dal rosticciere. Il Gps guiderebbe da solo la vettura verso le destinazioni scelte. E questa è solo la più banale.
Nel sognare le sue sorti magnifiche e progressive, Google non dovrà preoccuparsi più di tanto per l’escalation di scandali sulla privacy degli utenti violata, saccheggiata. Ivi compresa la vicenda di Edward Snowden, le collusioni con i servizi d’intelligence della National Security Agency. I capi di Google fingono preoccupazione e abbozzano scuse, ma la storia (sia pur breve) del loro gruppo li ha resi cinici: chi ricorda ancora l’epoca in cui giurarono che mai e poi mai la pubblicità si sarebbe infiltrata nel motore di ricerca? La Carta buonista di Google alle origini — «fare il bene» appare
nella ragione sociale, nientemeno — ha conosciuto tali e tanti strappi, senza con questo alienare la clientela. È passato nell’oblìo il fatto che Gmail rapina quotidianamente informazioni dalle nostre email e le usa per scopi commerciali. Molto prima che scoprissimo il suo collaborazionismo con l’intelligence Usa, Google stava già usando a fini propri (pubblicità e marketing) l’immensa mole di informazione che raccoglie su ciascuno di noi. All’orizzonte, l’unica minaccia vera che preoccupa Page e Brin è un’altra: la marginalità di Google nella sfera dei social network, di conseguenza il pericolo che anche i flussi pubblicitari possano essere dirottati verso altre piattaforme come Facebook e Twitter. Alla fine la torta pubblicitaria resta la posta in gioco nella battaglia fra questi giganti, e per conquistarla Google è pronta a intrufolarsi nelle nostre teste in modo sempre più invasivo, fino a quando la fantascienza di Minority Report ci sembrerà una favola per bambini a lieto fine.

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