L’oscura biografia della moneta unica

by Sergio Segio | 24 Settembre 2013 6:44

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Il libro di Massimo D’Antoni e Ronny Mazzocchi L’Europa non è finita (Editori internazionali riuniti, pp. 286, euro 17,50, postfazione di Stefano Fassina) riflette le contraddizioni dell’europeismo volenteroso della sinistra del Pd. Esso è, infatti, costretto fra un’analisi della crisi (grosso modo) condivisibile e una visione speranzosa della sua evoluzione che manca di tenere in sufficiente conto il conflitto fra gli interessi nazionali che caratterizza l’Europa per quello che è rispetto a quello che si vorrebbe fosse. Nello spiegare la crisi dell’euro, troppo peso viene al riguardo attribuito alla condivisione da parte delle élite europee della visione «neo-liberista» del funzionamento dell’economia: «La crisi deriva… da un difetto di disegno dell’Unione, che rispondeva a una visione inadeguata del funzionamento dell’economia, figlia di una precisa stagione ideologica».
A onor del vero, gli autori non cadono nel mantra del «neo-liberismo» ripetuto a ogni piè sospinto e puntualizzano che «la sola ideologia e quello che potremmo chiamare lo spirito del tempo non sono … (spiegazioni) sufficienti» e che «i passaggi cruciali del processo di unificazione europea andrebbero ricondotti nella sfera della volontà politica ovvero dei rapporti di forza tra governi». Più avanti, toccano la «questione tedesca» alludendo – forse senza la dovuta energia – alla profonda incompatibilità fra il modello mercantilista che il capitalismo tedesco si è scelto, e un’unificazione monetaria con un segno progressista.
Nonostante questo quadro negativo, il leitmotiv del volume è, tuttavia, che «rilanciare il progetto di integrazione europea e salvare il modello sociale europeo sono le due facce della stessa medaglia». Ma alla luce dell’assenza di forze in direzione di questo rilancio, questa rischia di apparire un’affermazione alquanto discutibile. Una parte notevole del volume (secondo e terzo capitolo) è, in effetti, dedicata a una strenua difesa dello stato sociale in cui gli autori cercano di difenderlo dall’accusa che «distorca l’allocazione delle risorse», impostazione che sfortunatamente assume l’orizzonte dell’equilibrio economico generale neoclassico corretto per l’esistenza dei «fallimenti del mercato» (la cosiddetta «economia del benessere»).
La difesa dello stato sociale è così ridotta all’idea che reti di sicurezza minime incentivino gli individui ad assumere il rischio che può loro derivare dal perseguire le opportunità offerte da forme di maggiore integrazione esterna come quella europea – rischio che, con un’inopportuna retorica veltroniana (o renziana), viene definito come la «capacità di decidere della propria vita, quindi anche di rischiare mettendosi in gioco, creare, progettare»). Non c’è bisogno di ricorrere al più caratteristico dei concetti dell’economia dominante, quello individualista degli incentivi, per spiegare le ragioni dello stato sociale e di come esso possa ben integrarsi con un’economia di mercato, sia come elemento di sostegno della domanda aggregata (fatto mai citato dagli autori) che come fattore di consenso.
Correttamente respinta l’idea che un eccesso di dissipatezza fiscale da parte dei paesi europei periferici sia alla base della crisi, gli autori ne indicano la fonte nelle bolle immobiliari favorite dai flussi di capitali dai paesi centrali. Sostenendo la domanda aggregata, le bolle hanno nascosto per dieci anni l’anima nefasta (deflazionista) dell’euro.
Gli autori non evitano di scivolare però di nuovo nel moralismo neoclassico quando accusano i paesi periferici di aver sperperato le risorse provenienti dall’estero. Essi mancano, infatti, di inquadrare questi eventi come l’ennesimo caso di sviluppo effimero fomentato dagli afflussi di capitale estero, di cui la crisi indiana di queste settimane è l’ennesimo esempio (si legga la meravigliosa Jayati Ghosh su The Guardian 26/8). Ritengono che in Europa si sarebbe potuto far meglio, con un quadro istituzionale che, nell’avviare l’unificazione monetaria, non avesse trascurato il differenziale strutturale di competitività centro-periferia.
La loro proposta è forse relativa a politiche industriali più incisive a favore delle aree periferiche. Senza attribuire poteri magici alla flessibilità del cambio, la perdita di un tasso di cambio competitivo (incluso verso le monete extra-euro) implica tuttavia una dipendenza secolare e alla lunga irreversibile di aree deboli che si integrino valutariamente con aree forti. In questo contesto, nel volume manca un’analisi del caso italiano il quale non ha condiviso le vicende immobiliari degli altri periferici, ma per il quale la perdita di un cambio competitivo rimane la ragione di fondo della crisi (che, naturalmente, potenzia le altre più endogene).
Nel quarto capitolo, gli autori tornano sui limiti della costruzione monetaria europea: l’assenza di un’unione bancaria che eviti che crisi bancarie nei paesi membri degenerino in crisi fiscali; il comportamento non sufficientemente risoluto della Bce; le differenze col modello federale americano e i suoi ampi trasferimenti fra stati membri; i vantaggi che la Germania ha derivato dalla moneta unica. Timidamente, accostano l’euro al gold-standard, humus di crisi del debito nei paesi periferici e gabbia alla crescita e alla democrazia economica. Ma nonostante questa lista di elementi negativi, si mostrano (moderatamente) ottimisti.
Così, delineano tre opzioni.
1) Quella basata sulle politiche attualmente perseguite dall’Unione, giudicata negativamente.
(2) L’abbandono della moneta unica, considerata non convincente. Al riguardo, non han torto nel giudicare complicato attuare una rottura dell’euro, che appena apparisse fra le opzioni del dibattito democratico sconquasserebbe i mercati finanziari. L’affermazione che laddove fosse possibile superare questi problemi di transizione, la scelta lascerebbe un’Europa astiosa e in dissoluzione non è, tuttavia, condivisibile. Se i passaggi fossero concordati non sarebbe necessariamente così. Che singoli paesi non se la passerebbero bene nel mondo globalizzato, come sostengono, è poi falsissimo. La Polonia, che si guarda bene dall’entrare nell’euro, non se la passa assai meglio di noi?
(3) La terza via, preferita dagli autori, è dunque quella del più Europa. In fondo, integrazione e moneta unica van bene, sembra di capire, serve solo un po’ più di rete di protezione europea per i perdenti e un po’ più di politica industriale.
Al momento, tuttavia, non ci sembra di scorgere neppure un pallido segno di una volontà politica europea di procedere verso una vera unificazione che presupponga la convergenza dei diritti sociali di tutti i popoli coinvolti e un forte impegno per lo sviluppo dei paesi periferici. Vediamo al massimo l’asservimento della periferia europea alle esigenze tedesche di un retroterra di forza-lavoro a buon mercato. L’elevato standard di analisi del volume ne fa comunque un importante contributo a un dibattito dai toni franchi fra coloro che si oppongono allo stato di cose presente.

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