Mezzo mondo si schiera con Obama Ma Putin: aiuteremo noi Damasco

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SAN PIETROBURGO (Russia) — Non è bastata una cena interminabile — tre ore nello sfarzo nella reggia estiva degli zar — per sbloccare la disputa Usa-Russia sulla Siria. All’una di notte di ieri, dopo un confronto durissimo condotto da Barack Obama e Vladmir Putin con nervi d’acciaio, senza mollare nulla ma anche senza incidenti irreparabili, anche i «pontieri» più indefessi, come il premier italiano Enrico Letta, si sono arresi.
Alla fine il comunicato che chiude i lavori del G-20 di San Pietroburgo nemmeno cita la Siria, argomento che non era ufficialmente nell’agenda del vertice, ma che ne ha dominato i lavori. E Putin — che con un ultimo dispetto riserva per sé l’auditorium principale delle conferenze stampa relegando Obama in una sala più piccola — nel fare il bilancio del summit da lui presieduto sostiene che la grande maggioranza dei Paesi rappresentanti, il grosso dei loro popoli e poi anche il Papa e l’Onu, si oppongono all’intervento armato che Obama sta per lanciare.
Smentendo il suo stesso portavoce Peskov che nella notte aveva parlato di una cena coi Paesi divisi a metà tra favorevoli e contrari a punire il regime di Assad, Putin elenca le nazioni che considera nel suo campo e tra esse inserisce anche l’Italia, lasciando al fronte «interventista» di Obama solo Canada, Turchia, Arabia Saudita, una Gran Bretagna «azzoppata» dal no parlamentare all’attacco, mentre la Germania viene dipinta come a metà del guado.
Poco dopo, però, arriva la dichiarazione di 11 Paesi a sostegno della punizione di Assad (ma non dell’attacco militare senza mandato Onu) considerato responsabile delle stragi chimiche. È la conferma di un vertice diviso a metà: la firmano gli Usa e altri 10 (ma la Spagna non fa parte del G-20, è solo un invitato). Firma anche l’Italia, unico Paese che si ritrova tirato da tutti e due i fronti.
Per Putin è un fragoroso ritorno sulla scena internazionale: il presidente russo si accredita come il condottiero di un gruppo di Paesi (dalla Cina all’Indonesia) che, se non brillano sempre per democrazia, sono comunque i più popolosi e quelli economicamente più dinamici. Il presidente russo esce dall’isolamento di tre mesi fa, al G-8 di Lough Erne, ma il tentativo di capovolgere la situazione isolando a sua volta il «guerriero» Obama è fallito. Anche se Putin annuncia che in caso di blitz la Russia continuerà a fornire aiuti alla Siria, inclusi quelli militari.
Tra i due c’è grande freddezza, ma anche pragmatismo e una pallida ripresa di dialogo: si parlano per una ventina di minuti alla ripresa dei lavori di ieri e alla fine Putin dice che i due ministri degli Esteri, Lavrov e Kerry, torneranno ad incontrarsi. Uno spiraglio rispetto a chi dice che, se gli Usa attaccano, la conferenza di Ginevra 2 torna nel cassetto. Né lui né Obama hanno tirato fuori il caso Snowden, l’altro macigno caduto sulle relazioni Mosca-Washington. Di spionaggio Obama ha parlato, ma coi leader del Brasile e del Messico ai quali ha promesso una revisione delle procedure della Nsa, la centrale federale dell’«intelligence», dopo le fughe di notizie sulle attività di spionaggio a tappeto dell’agenzia anche nei confronti dei leader dei due Paesi latinoamericani.
Il presidente Usa avrebbe qualche motivo di sollievo, se non di soddisfazione, per aver evitato di finire nell’isolamento del «guerriero solitario» e per aver dimostrato che la via di una sanzione internazionale del regime di Assad è impraticabile, stante l’opposizione assoluta della Russia.
Come da suoi programmi, Obama ha usato il palcoscenico di San Pietroburgo per spiegare a chi (dal presidente cinese Xi al Papa) si oppone a qualunque uso della forza che «un mondo nel quale un dittatore che uccide la sua gente col gas non viene duramente punito, è un mondo molto meno sicuro».
Concetti illustrati senza enfasi, con l’espressione preoccupata di chi sa che l’attacco che probabilmente dovrà ordinare gli porterà solo guai e nessun vantaggio.
Il problema più grosso, adesso, è quello del voto del Congresso che lui stesso ha chiesto pur avendo, con le prerogative presidenziali di comandante in capo delle forze armate, tutti i poteri per lanciare lo strike contro Damasco.
Durante la conferenza stampa Obama è stato ripetutamente interrogato sulle conseguenze della possibile (e al momento attuale probabile) bocciatura del suo piano d’attacco in un ramo del Parlamento (dovrebbe passare al Senato, mentre alla Camera, oggi, i voti sicuri per lui sono assai pochi). Il presidente continua a difendere la sua decisione come una scelta democratica e non spiega cosa farà se i due rami del Parlamento voteranno in modo divergente. Ma è chiaro che ora il fronte interno lo sta mettendo in difficoltà anche più di quello internazionale.
Massimo Gaggi


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