Pechino, ergastolo a Bo Xilai avvertimento ai nemici del Partito

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PECHINO — Xi Jinping invia un duro avvertimento al partito, al popolo e alla comunità internazionale: la campagna anti-corruzione di Pechino non si ferma e consegna alla nuova leadership cinese un’arma utilizzabile anche come mezzo di epurazione politica, o di esclusione dal business. È questo il messaggio arrivato ieri dalla corte intermedia del popolo di Jinan, chiamata a giudicare l’ex stella nascente del potere Bo Xilai. Il leader neo-maoista è stato condannato all’ergastolo, oltre che alla confisca dei beni e alla perdita a vita dei diritti politici. Potrà presentare appello ma in Cina, dove la magistratura risponde direttamente al partito, la realtà non è destinata a cambiare. Bo Xilai, 64 anni, figlio di uno dei «nove immortali» compagni rivoluzionari di Mao Zedong, non tornerà mai libero, a meno di un terremoto tra i vertici del regime.
I giudici ieri hanno ricostruito i fatti emersi nel corso dei cinque drammatici giorni del processo, chiuso il 26 agosto, quando a sorpresa Bo Xilai, rischiando la pena capitale, non si è dichiarato pentito e ha respinto ogni addebito. Anche per questa “colpa” è stato ritenuto «pienamente responsabile» di corruzione, appropriazione indebita e abuso di potere. Inchiodato dalle testimonianze della moglie Gu Kailai, condannata a morte per l’omicidio dell’uomo d’affari inglese Neil Heywood, e del suo ex braccio destro Wang Lijun, che sta scontando 15 anni, in qualità di ministro e di capo
del partito a Dalian e a Chongqing, avrebbe incassato circa 3 milioni di euro di tangenti e investito in beni all’estero, tra cui una villa in Costa Azzurra. Dopo l’assassinio Heywood avrebbe infine tentato di coprire la moglie per non frenare la propria ascesa al potere, costruita su un ritorno della Cina a ideologia e metodi di Mao.
La corsa ai vertici del politburo, decisa in marzo per il prossimo decennio, ha segnato l’intero scandalo. Bo Xilai è stato arrestato nel marzo 2012, mentre i falchi della sinistra contendevano ai riformisti le poltrone di spicco nel comitato permanente e nel Paese circolavano voci di un golpe militare. La sua condanna, dopo l’insediamento del presidente Xi Jinping, è stata pronunciata ora nel pieno dell’ondata di arresti contro alti dirigenti, funzionari corrotti e manager stranieri, alla vigilia del congresso annuale del partito.
Per la prima volta, nella Cina di censura e repressione, processo e sentenza sono stati seguiti in diretta dalla tivù di Stato e dal social network “Sina Weibo”. Il tribunale di Jinan è rimasto inaccessibile, ma gli analisti ufficiali di Pechino sottolineano un «epocale passo verso la trasparenza ». Dissidenti e legali indipendenti affermano invece che i media sono stati sfruttati dal partito per esporre Bo Xilai ad una «forma contemporanea di gogna maoista», monito per gli avversari interni. Rinunciando a condannarlo a morte per la sua popolarità, il potere ha teso una mano agli influenti nostalgici della rivoluzione. La dosata severità dell’ergastolo testimonia invece il pieno controllo dell’apparato da parte di Xi Jinping e la sua volontà di varare «grandi riforme economiche e politiche » entro l’autunno.
In una lettera inviata ai famigliari prima del verdetto, Bo Xilai ha scritto che il suo nome «un giorno verrà riabilitato, come accadde a mio padre». Allusione all’ombra di Mao, che continua ad incombere su una super-potenza incapace di fare i conti con la propria storia. L’uomo che voleva resuscitarlo esce di scena per scongiurare questo pericolo, ma sempre nel suo nome. Solo il partito può depurare se stesso. La transizione dei nuovi “prìncipi rossi” si conclude così senza scontri di massa, ma con l’ennesima, postuma condanna indiretta dei leader decaduti. Ora tocca a Xi Jinping dimostrare di saper realizzare il suo «sogno cinese».


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