Quel che rischia Barack

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NON ancora. Li usa la Casa Bianca per descrivere l’offensiva politico-mediatica a tutto campo che viene sferrata in queste 48 ore. Barack Obama in persona, più i suoi massimi consiglieri, al rientro dal fallimentare G20 di San Pietroburgo affrontano una sfida ancora più difficile. Vogliono convincere l’opinione pubblica e il Congresso che colpire Assad è la cosa giusta, non solo per ragioni umanitarie e di diritto, ma nell’interesse nazionale degli Stati Uniti. Stasera Obama andrà in onda su sei network televisivi con altrettante interviste. Domani sera parlerà alla nazione, dallo Studio Ovale della Casa Bianca. In parallelo va avanti un lavorìo incessante, un vero e proprio lobbying parlamentare, per conquistare i voti necessari: negli ultimi giorni ben 165 deputati e 85 senatori sono stati contattati direttamente da Obama e tutti i pesi massimi dell’Amministrazione. Ai parlamentari sono stati mostrati nuovi video shock, con immagini agghiaccianti sulle vittime del gas sarin. Susan Rice, ex ambasciatrice all’Onu, oggi capo dei consiglieri strategici, e soprattutto afroamericana, ha numerosi incontri con il Congressional Black Caucus: l’associazione dei parlamentari afroamericani, su posizioni progressiste e pacifiste. Tra gli avvocati in favore dell’intervento militare Obama schiera due ex collaboratori di prestigio: Hillary Clinton e il generale David Petraeus che fu capo supremo in Afghanistan e poi alla Cia. Un’importante associazione per l’amicizia israelo-americana, l’American Israel Public Affairs Committee, mette in campo 250 esponenti per contattare parlamentari e spiegare la necessità dell’azione contro Assad.
L’imponente offensiva della persuasione, è proporzionale alla difficoltà del compito: i numeri, allo stato attuale, non ci sono. Né nell’opinione pubblica né al Congresso. Fin qui Obama è ben lontano dall’aver convinto. I sondaggi, pur variabili, danno ancora una netta maggioranza di americani contrari al blitz. Al Congresso l’ultima conta dei voti ieri dava questi rapporti di forze. Camera: 229 no, 41 sì, 163 indecisi o non dichiarati. Senato: 32 no, 28 sì, 40 indecisi. Oggi il rifiuto dell’intervento militare è soverchiante. Le cose possono ancora cambiare, ma non c’è più molto tempo per spostare voti.
Stamattina torna a riunirsi la Camera, l’osso più duro per Obama: lì c’è una maggioranza repubblicana che negli ultimi due anni ha sistematicamente bocciato qualsiasi proposta del presidente, più per indebolire lui che guardando alla sostanza delle decisioni. Il Senato ha una maggioranza democratica
ed è meno ostico anche nella componente repubblicana, e tuttavia i suoi regolamenti impongono di raggiungere una maggioranza qualificata di 60 voti su cento. Emblematico è il pronunciamento di un senatore democratico, Mark Pryor dell’Arkansas, che si è dichiarato contrario all’azione militare «in questo momento». Non a caso: Pryor deve affrontare una rielezione imminente, sa che farebbe fatica a “vendere” un sì all’intervento in Siria nel suo collegio. Obama è il primo a riconoscere che la resistenza dell’opinione pubblica è fondata: «È comprensibile, dopo 11 anni di guerre. Anch’io sono stanco di guerre». Perciò i suoi collaboratori hanno una direttiva tassativa: mai usare la parola “guerra”, nelle interviste e nei colloqui con i parlamentari. «Questo non è l’Iraq — ripete il capogabinetto della Casa Bianca Denis McDonough — questo non è l’Afghanistan, e non è neppure la Libia. Non è una guerra, non è neanche una campagna aerea prolungata. È un attacco mirato, proporzionato, limitato, tale da punire e dissuadere l’esercito di Assad, perché non ripeta le stragi con armi chimiche». Il generale Petraeus, in linea con Obama, ammonisce gli americani sui pericoli del non fare nulla: «Dobbiamo assicurarci che dall’Iran alla Corea del Nord, dall’Hezbollah ad altri gruppi terroristici, nessuno sottovaluti la determinazione dell’America a usare la forza laddove gli altri strumenti hanno fallito». Incalza McDonough: «Vogliamo lasciare impunito chi massacra civili, donne e bambini con armi vietate da tutte le convenzioni internazionali?».
Sarà una settimana davvero cruciale, non solo per gli assetti del Medio Oriente ma anche per il futuro di Obama. Una bocciatura al Congresso — tanto più se il no venisse sia dalla Camera che dal Senato — sarebbe un colpo duro, il suo status ne uscirebbe ridimensionato. Segnerebbe la fine delle “presidenze imperiali”, inaugurando la stagione di un esecutivo meno potente di fronte al Congresso. In teoria il presidente può ordinare l’attacco aereo anche a prescindere dal parere parlamentare, ma i suoi consiglieri dicono: «Avere chiamato in causa il Congresso, evidentemente non è un esercizio a vuoto».


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