Ritorno a Lehman Brothers

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NEW YORK. «Sono un sopravvissuto al settembre delle scatole di cartone, ricordate? Perché proprio io, e non quelli che affondarono in silenzio, risucchiati nel gorgo di Wall Street quel venerdì di settembre 2008, non so dire, ma questa è la storia di tutti i naufragi. C’è chi si salva e chi annega così, senza speciali meriti o speciali ragioni. Io sono ancora a bordo, sulla nave, cinque anni dopo, con qualche grado in più sulla manica, chiamato dalla stiva al ponte di comando a guardare l’oceano della finanza che sembra più tranquillo. Sapendo che quando s’ingrosserà di nuovo, il prossimo a essere buttato fuori bordo sarò io, perché è sempre il chiodo che sporge quello che prende la martellata.
Dicono che in quel fine settimana di settembre furono trentamila i naufraghi di Wall Street, ma noi qui sappiamo che non è vero. I caduti e i dispersi sono stati molti di più, perché dentro le scatole di cartone che i licenziati portarono via abbracciandole, strette insieme con i loro titoli e lauree e master in Business sui marciapiedi di Times Square, di Broadway, verso le loro Bmw, Lexus e Porsche in leasing, c’erano figli e famiglie. C’erano rette di scuole private e provvigioni di venditori di auto, agenti immobiliari e impiegati di banca senza più i loro soldi da amministrare, nei cerchi concentrici che si allargavano attorno a loro dopo il tuffo.
Per mesi e mesi ero riuscito a dormire anche una mezz’ora in più perché i tunnel sotto l’Hudson River erano molto meno ingorgati. Poi, poco alla volta, ho visto il traffico sui ponti e nei tunnel che portano a Manhattan infoltirsi, e le cifre sul quadrante della mia sveglia tornare a farsi più piccole. Quando le navi che dovevano affondare affondarono, quando le Lehman, le Merryl, le Bear Stearns, le Smith Barney furono liquidate o risucchiate da noi delle banche troppo grosse per essere lasciate andare a picco, le palate di soldi pubblici gettate nelle caldaie riportarono le navi in linea e la vertigine, la nausea cominciarono a calmarsi. Anche l’odio, la collera planetaria attorno a noi, i “grandi ladri”, i “distruttori di mondi” con i nostri prodotti finanziari radioattivi, i derivati, gli hedge, i credit swap, il credito facile che tutti divoravano quando sembravano rendere fortune e tutti disconobbero come figli della colpa quando arrivò l’indigestione, cominciarono a placarsi.
Adagio adagio, chi era sopravvissuto, chi era stato fatto galleggiare o trainato dai rimorchiatori pubblici, noi della Goldman, della JP Morgan, della Bank of America, della Morgan Stanley, della Citi, abbiamo ripreso ad assumere. I superstiti sono stati promossi, come me. I capi che un venerdì alle cinque mi avevano chiamato per dirmi che trenta dei trentacinque che lavoravano nel mio gruppo non sarebbero tornati il lunedì e che avrei dovuto
produrre lo stesso bilancio con un settimo del personale, ricominciarono a chiedermi qualche nome, qualche curriculum per rimpolpare lo scheletro rimasto da quel giorno.
Ma la nuova normalità che cominciò a calare dal 2010 era molto diversa dalla vecchia e oggi sappiamo che era inutile prendersela con Obama e con il clima di
regulation.
Erano finiti per sempre, almeno nel sempre di questo mondo che cambia come il tempo a New York, gli anni roventi del “Gorilla”, come noi nel giro chiamavamo Dick Fuld della Lehman Brothers, quando rastrellavano con offerte faraoniche tutti i migliori dalle banche concorrenti. E bonus garantiti di mezzo milione, di un milione, anche di due a fine anno oltre lo stipendio erano normali, perché la sua filosofia era quella di strappare il cuore agli avversari e mangiarlo, così diceva.
La Fed di New York, da dove era partito il segretario al Tesoro di Obama, Geithner, la Sec, che avrebbe dovuto sorvegliare Borsa e Finanza e aveva avuto disposizioni di chiudere tutti e due gli occhi, i procuratori federali, Washington, il Congresso ci avevano lanciato le scialuppe, ma per tenere buono il pubblico che avrebbe pagato tanta parte del conto chiedevano di regolare almeno le retribuzioni e soprattutto i bonus. Era facile farlo, per chi di noi stava sul ponte di comando. Quando nessuno assume più, quando non ci sono più gorilla alla porta pronti a strapparti il cuore, chi si salva resta ben coperto dove si trova e accetta le condizioni che ti fanno. Prendere o tuffarsi nella scatola di cartone fradicio.
Abbiamo fatto tanto di ciò che noi in Borsa e nella finanza creativa chiamiamo il
window dressing,
mettere le tendine alle finestre per farle sembrare più belle. Parte dei bonus diventò stipendio, per far sembrare più piccoli e tollerabili gli assegni di fine anno. Finita la festa delle stock options cominciò il balletto delle azioni ristrette, bonus pagati in azioni della tua stessa banca ma con il divieto di toccarle per molti anni e con la perdita totale se te ne vai: delle azioni posticipate, come la carota alla
fine del bastone. Ma a ogni mossa, il governo, le sue braccia e i suoi occhi che devono regolare dal 2009 la nostra attività, arrivano a controllare che sotto le tende non si riaprano le finestre degli anni folli. In cambio, non si fanno più salassi.
L’emorragia di allora è diventata una piccola perdita continua. I capi non mi chiedono più massacri, e tutto sembra più soft. Mi domandano un paio di nomi, due o tre, da mettere in testa alla classifica dei candidati alle scatole di cartone, ma non subito, domani, caso mai, giusto per sapere chi rende meno. Vogliono che aumentiamo il volume di affari del 25 o 30 per cento, e se non lo facciamo ecco che spunta dal cassetto la lista che ho dovuto preparare, mentre altri, più in alto, hanno fatto altre liste, nelle quali forse c’è anche il mio nome. Siamo obbligati a prendere due settimane di ferie all’anno, obbligati, che sono sempre meno delle cinque settimane di riposo in campagna che i cavalli delle carrozzelle di Central Park per legge devono fare, ma sono sempre più del “guai a chi va in ferie” di prima.
Per far vedere che le macchine hanno ripreso a girare, ricominciamo a ingaggiare i ragazzi e le ragazze freschi di lauree che sono stati scelti per gli stage estivi dalle quindici migliori università d’America. Hanno un’ottima chance di essere assunti, spesso uno su due. Ma anche qui, c’è il trucco. Se prima del 2008 prendevano cento stagisti all’anno e ne assumevamo cinquanta, oggi ne accettiamo trenta o quaranta per offrire contratti a quindici o venti. È sempre il 50 per cento, ma sono molti di meno. Stipendi da centomila dollari lordi all’anno, che erano possibili per un primo assunto con il master in Business, oggi se li sognano.
Di quelli che avevo visto uscire quel venerdì di settembre e non tornare più il lunedì, si sono perdute le tracce. Qualcuno ha aperto il negozietto, il proprio shop finanziario, cercando di creare fondi e banche private con i clienti che aveva servito negli anni d’oro. Altri si sono rassegnati a lavorare per il governo, a una frazione dei vecchi guadagni, per controllare che oggi non si facciano più quelle acrobazie che loro facevano prima. Altri ancora hanno lasciato i paesi e i sobborghi del Connecticut o del New Jersey, se avevano famiglia, o i condomini di Manhattan, se erano single. E sono svaniti nel Grande Ovunque dell’America.
In questo settembre 2013, per la prima volta da cinque anni, abbiamo cominciato a perdere qualcuno, ingaggiato da banche concorrenti. Non siamo neppure più i cattivi della Terra, quelli che tutti accusavano di avere portato il mondo sulla soglia della bancarotta dopo averci adoperato per nascondere la loro incapacità di amministrare. Wall Street ha ripreso a salire e quando ci sono profitti da distribuire e non perdite da assegnare, noi torniamo a essere i buoni. Abbiamo ricominciato a vedere mogli, chi ancora ce l’ha, e figli, ad assistere ai saggi di ballo della bambine e alle partite di football dei maschi. Guadagniamo di meno, viviamo di più».


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