UN POSTO NELLA STORIA

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DOPO varie giravolte, qualche fallimento e mille esitazioni, Barack Obama sembra aver finalmente deciso su cosa puntare: nientemeno che l’accordo con l’Iran. Per ottenerne la rinuncia alla bomba atomica in cambio della piena reintegrazione della Repubblica Islamica nella società internazionale e del riconoscimento del suo rango di protagonista regionale. Il discorso tenuto ieri da Obama davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite disegna una forte apertura verso un Paese che dall’America è stato a lungo classificato come perno dell’“Asse del Male”. E che oggi si proclama deciso a percorrere fino in fondo la via del negoziato con gli Stati Uniti e le altre maggiori potenze. Obiettivo: uscire dal ghetto delle sanzioni e della quarantena diplomatica impostagli dall’Occidente a causa del suo assai opaco programma nucleare.
Obama aveva inaugurato la sua politica estera porgendo un ramo d’ulivo all’Iran di Ahmadinejad, solo per esserne beffeggiato. Quasi cinque anni dopo, il clima è cambiato. A Teheran il nuovo presidente Hassan Rohani, su mandato della Guida Suprema, Ali Khamenei, ha messo da parte l’avventurismo e le provocazioni del suo predecessore, inaugurando la stagione dell’“impegno costruttivo”. Rohani ha solennemente proclamato la rinuncia di Teheran all’arma atomica, assicurando che l’Iran svilupperà solo energia nucleare a scopi civili (non una novità, per quanto gli accenti siano diversi dal passato), ma soprattutto ha segnalato, sia in pubblico che nella diplomazia segreta, il suo interesse a negoziare sul serio, a 360 gradi, su tutte le questioni sul tappeto, Siria compresa. Affidando fra l’altro il dossier nucleare a Mohammad JavadZarif, negoziatore di lungo corso ben introdotto nell’establishment americano.
Di più: la Guida Suprema ha invitato i pasdaran a cedere il passo: non è tempo di provocazioni e di enfasi militariste, ma di “flessibilità eroica”. Non che Khamenei abbia scoperto il fascino dell’America. Più banalmente, si è reso conto che la linea dello scontro ha indebolito l’Iran sulla
scena mondiale e rischia di mettere in questione la tenuta stessa del regime, provato dalle sanzioni ma soprattutto dalla vivacità della società civile più moderna e filo-occidentale del Medio Oriente.
Non a caso Obama ha promesso, davanti alle Nazioni Unite: «Noi non cerchiamo di cambiare il regime» iraniano. Certo quasi mezzo secolo di guerra fredda non può essere archiviato in un giorno, «ma io credo fermamente che la via diplomatica debba essere sperimentata». Il presidente americano spera, reintegrando gradualmente l’Iran nel gioco delle potenze, di aver trovato la chiave necessaria a ristabilizzare il Medio Oriente, pacificare la Siria – l’accordo Lavrov-Kerry deve molto all’indisponibilità iraniana a “morire per Assad” – e rilanciare la soluzione della questione israelo-palestinese, che Obama continua a evocare, senza probabilmente crederci troppo.
Vedremo già nelle prossime settimane se il dialogo irano-americano – un’utopia, fino a ieri – produrrà qualche risultato concreto, o se inciamperà sui primi ostacoli. Di sicuro il discorso di Obama non è piaciuto affatto agli israeliani. Netanyahu l’ha fatto capire senza troppi giri di frase. Gerusalemme non vede – e comunque non
vuole vedere – nella coppia Khamenei-Rohani un nuovo spirito collaborativo, che farebbe saltare tutte le equazioni strategiche costruite dai governi israeliani negli ultimi anni, fondate sulla minaccia esistenziale della bomba atomica di Teheran. Come minimo, il leader americano è per Netanyahu un ingenuo che rischia di farsi sedurre dalle sirene persiane, mettendo in pericolo la sicurezza di Israele. Quanto ai sauditi, che considerano l’Iran sciita il loro nemico mortale e vorrebbero convincere Washington dell’urgenza di “tagliare la testa del serpente” (la Repubblica Islamica, nell’interpretazione di re Abdallah), sono furibondi.
Secondo la strana coppia Riyad-Gerusalemme, Obama ha commesso due peccati gravi nel giro di un paio di settimane, rinunciando a colpire la Siria e cadendo nella trappola iraniana. Mentre le diplomazie occidentali si muovono, decise a vedere le carte di Rohani, è già partito il fuoco di sbarramento israeliano e arabo-saudita. Obama non poteva scegliere una partita più ardua per passare alla storia. La cronaca ci dirà, fra non molto, se la sua scommessa sarà vincente o se invece sigillerà ingloriosamente la parabola di una presidenza che amava promettere troppo.


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