Sì alla fiducia, la vittoria dei «ribelli» E alla fine il governo si ritrova più voti

by Sergio Segio | 3 Ottobre 2013 7:04

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ROMA — Sono le 13.30 quando Silvio Berlusconi si esibisce nell’aula del Senato in un triplo salto carpiato che lascia senza parole più di mezzo emiciclo: «Abbiamo deciso di esprimere il voto di fiducia a questo governo….». Il Cavaliere ci mette meno di 4 minuti a motivare la sua mossa tattica che, come un colpo di spugna, sterilizza per il momento i piani di chi sognava un governo deberlusconizzato e sorretto finalmente anche dall’embrione di un nuovo partito dei moderati italiani. Quel sì a Letta detto con i denti stretti e con il volto scuro, dunque, annacqua il risultato della nuova maggioranza politica che, appena pochi minuti prima, riteneva di veleggiare al Senato verso l’autosufficienza (seppure risicata) con i voti del Pd (107), di Scelta civica 20 (compreso Monti), degli autonomisti (10), dei 4 ex grillini finiti nel Misto, dei neo senatori a vita Elena Cattaneo e Carlo Rubbia . E, soprattutto, grazie ai 23 senatori del centro destra disposti a seguire Alfano, Quagliariello, Formigoni e Giovanardi nella battaglia contro i falchi di Forza Italia .
Il voto della fiducia, annacquata da Berlusconi, dunque, finisce con il governo che incassa 235 sì (due in più rispetto all’esordio del 29 aprile) e 70 no anche se poi un drappello di forzisti non segue le indicazioni del Cavaliere: se infatti Berlusconi passa sotto il banco della presidenza e dice sì a Letta con la faccia di chi va a un funerale, poi non lo seguono Sandro Bondi (che con ordini incerti aveva appena parlato in aula di «governicchio Letta destinato al fallimento»), Francesco Nitto Palma, Giulio Tremonti, Alessandra Mussolini, Remigio Ceroni, Augusto Minzolini, Manuela Repetti, che disertano la chiama. Invece Vincenzo D’Anna vota la sfiducia e si rivolge al capogruppo del Pd, Luigi Zanda, e gli dice: «Se il Pd non mi vuole io ti dico che non mi meriti». Tra i grillini che dicono no a Letta sono assenti invece Crimi (in missione), Orellana e Marton.
Così il sogno dei 23 senatori moderati «esperti e lungimiranti pionieri che hanno fatto riflettere chi di dovere», secondo una definizione di Roberto Formigoni, dura lo spazio di un mattino. I loro nomi (Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D’Ascola, Aiello, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L. Rossi e Quagliariello), scolpiti in calce alla risoluzione favorevole ad approvare le comunicazioni di Letta, suonano come l’epitaffio del Pdl. Però a mezzogiorno, quando Berlusconi ancora oscilla per la sfiducia, Formigoni ci mette un carico da novanta insopportabile per il Cavaliere: «Ho parlato con il presidente stanotte e non ci siamo capiti, noi ora formiano gruppi autonomi dei “popolari”. Siamo 23 al Senato e 26 alla Camera».
La minaccia di scissione formale rimbalza nella sala Koch dove quel che resta del Pdl si spacca: dall’esito di votazioni convulse prevale infatti la linea della sfiducia a Letta che Luca D’Alessandro, deputato vicinissimo al falco Denis Verdini, comunica urbi et orbi («Sfiducia, sfiducia…») in pieno Salone Garibaldi. A quel punto mezzo Pd si rilassa e pensa di aver fatto filotto. Ma poi arriva il salto carpiato del Cavaliere sul quale mette il suo sigillo il capogruppo Renato Schifani, che si alza in aula e chiede di porre anche la sua firma in calce alla risoluzione pro Letta a fianco di quella dei 23 (ex) traditori.
Nel pomeriggio si replica alla Camera. Enrico Letta incassa 435 sì e 162 no (risultato comunicato in un’Aula semideserta) e lascia aperta una ferita profonda in casa di Berlusconi. Fabrizio Cicchitto arriva a un passo dalla formalizzazione di un nuovo gruppo (ci sono anche Lupi, Alfano e la Lorenzin) tanto che la presidenza della Camera concede 7 minuti di intervento «al capogruppo Cicchitto». Poi però tutto viene congelato, anche se in serata, alla riunione dei fedelissimi di Alfano, arrivano in 70.
Dino Martirano

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