Vajont, cinquant’anni trascorsi invano “A Longarone è quadruplicato il cemento”

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Era il 9 ottobre del 1963 quando una gigantesca ondata d’acqua, sollevata dalla frana del monte Toc, invase il bacino del Piave con oltre 270 milioni cubi di terra e roccia, abbattendosi impetuosamente sulla valle e distruggendo i paesi montani di Longarone, Erto e Casso. Eppure, mentre si commemora il più grande disastro nazionale del dopoguerra, a mezzo secolo di distanza il nostro territorio resta ancora ad alto rischio idrogeologico, minacciato dal consumo di suolo, dalla cementificazione selvaggia e dall’abusivismo edilizio.

Con un ampio e impressionante dossier intitolato Vajont anno zero, a cura di Andrea Agapito Ludovici, Luigino Ghedin, Stefano Lenzi e Bernardino Romano, Wwf Italia lancia l’allarme nel tentativo di evitare che altre tragedie simili si ripetano e nella speranza che la Penisola possa trovare un assetto più sicuro per tutta la popolazione. Non c’era nulla di imprevedibile e di inevitabile, infatti, in quella catastrofe del ’63. Tanto che la povera Tina Merlin, giornalista, scrittrice e partigiana, denunciata per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico” a causa dei suoi articoli sui pericoli di quella diga e di quel bacino idroelettrico, dovette aspettare diversi anni prima di essere assolta dal Tribunale di Milano.
Ormai si sa che cosa accadde esattamente il 9 ottobre di cinquant’anni fa. Il Monte Toc non poteva sopportare le sollecitazioni di quell’enorme invaso artificiale. E le responsabilità delle istituzioni pubbliche, insieme a quelle della Sade (Società adriatica di elettricità) sono state definitivamente accertate. Ma il consumo di suolo procede inesorabile al ritmo di 90 ettari al giorno su tutta la Penisola, i corsi d’acqua vengono ancora “canalizzati” e cementificati, le aree a rischio continuano ad aumentare sotto l’effetto perverso dell’urbanizzazione.
L’allarmante fenomeno denunciato dagli ambientalisti riguarda il 10 per cento della superficie nazionale, cioè un’estensione pari a 29.500 chilometri quadrati; l’89 per cento dei Comuni; il 5,8 per cento della popolazione; 2,4 milioni di famiglie e 1,2 milioni di edifici. E, aspetto ancor più grave, su queste aree insistono circa il 10 per cento delle scuole e il 10 per cento degli ospedali. In pratica, dagli anni Cinquanta al 2000, è come se avessimo ricoperto di cemento due regioni quali il Trentino Alto Adige e il Friuli Venezia Giulia. A completare la devastazione del territorio, dal 1948 a oggi si registrano 4,5 milioni di abusi edilizi, con una media di 75 mila all’anno, 207 al giorno.
A Longarone, epicentro della catastrofica alluvione del ’63, la superficie urbanizzata copriva allora 59 ettari e adesso risulta quasi quadruplicata. Per i tre quarti, edifici e capannoni industriali o commerciali si trovano in una fascia di appena 700 metri dall’alveo del fiume. Analoga è la situazione nei Comuni limitrofi. Cancellata o rimossa, dunque, la “memoria del Vajont” dalla coscienza collettiva, quello di Longarone rimane un paradigma,
un caso emblematico di malagestione del territorio. Ma anche monito da rinnovare a tutta l’Italia, contro il dissesto idrogeologico. E il fiume Piave, in virtù della sua forte carica storica e simbolica, può diventare il punto di partenza per un “nuovo governo del territorio”.
Nel suo documentato dossier, Wwf Italia fornisce anche una serie di proposte concrete. Al primo punto, c’è l’applicazione delle direttive europee
su acque e rischio alluvionale: la questione è ferma da anni presso la Conferenza Stato-Regioni e devono essere ancora istituite le Autorità di distretto idrografico. Poi, occorre promuovere un’azione diffusa per ripristinare le caratteristiche ambientali e la funzionalità degli ecosistemi; ridurre la vulnerabilità del territorio attraverso una maggiore responsabilizzazione dei cittadini; approvare l’articolata proposta di legge, sottoposta nel giugno scorso al ministro dell’Ambiente, Andrea Olando, per il recupero e la riqualificazione del patrimonio esistente. E infine, è necessario l’impegno delle Regioni e degli altri enti locali a contenere il consumo di suolo e ad approvare nuovi Piani paesaggistici, come ha già fatto per prima la Puglia del governatore Nichi Vendola, su impulso dell’assessore all’Ecologia Angela Barbanente.
«Nessuno ha colpa, nessuno poteva prevedere», si disse da più parti cinquant’anni fa di fronte a quell’immane tragedia. Un documento approvato nei giorni scorsi dalla commissione Ambiente della Camera, sotto la presidenza di Ermete Realacci, impegna ora il governo a «considerare la manutenzione del territorio e la difesa idrogeologica una priorità per il Paese, finalizzata a garantire la sicurezza dei cittadini ». A distanza di mezzo secolo, forse l’Italia comincia oggi a imparare la “lezione del Vajont”.


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