Amarezza di Napolitano per le critiche «Tutti dovrebbero stare ai fatti»

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Il sabato di fuoco, quello in cui il Quirinale è finito sotto assedio su tre fronti, l’ha trascorso chiuso nel suo studio. Senza il tempo di seguire alla televisione le dirette della manifestazione di Roma in difesa della «via maestra» (la Carta costituzionale), né la sfida di Matteo Renzi da Bari nella propria scalata al Partito democratico, né le ultime performance su Internet del Movimento 5 Stelle. Era impegnato a studiare la legislazione sul diritto d’asilo, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, e alla fine dell’esame ha telefonato al sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini.

Così, degli attacchi a tenaglia dei quali è stato bersaglio ha letto in serata le sintesi d’agenzia e ieri, più in dettaglio, le cronache riportate dai giornali. Repliche non ne fa. Non vuole esser trascinato in un battibecco infinito con nessuno. Per lui conta una cosa «essenziale», una sola: che «tutti stiano ai fatti». Conta cioè che si ragioni sulle parole scritte, e davvero pronunciate, da lui stesso. E che ci si prenda la briga di rileggersi tutto l’insieme con freddezza e onestà, mettendo da parte le animosità, le interpretazioni strumentali, le divagazioni dietrologiche.
Proviamo dunque a opporre i fatti alle polemiche, facendo perno sull’obiezione del presidente. Partiamo dall’allarme lanciato sabato da Gustavo Zagrebelsky dal palco romano di piazza del Popolo, quando ha detto di aver «paura» di dove può arrivare la «grande macchina» delle riforme «promossa dal governo e dal capo dello Stato»: il suo timore è che «quella macchina non si fermi prima di aver prodotto dei danni», che sarebbero poi un pericoloso scostamento costituzionale e un’inaccettabile evoluzione del sistema.
In realtà, sugli intenti del presidente quanto a questo tipo di ingegneria costituzionale dovrebbero valere alcuni documenti agli atti della storia repubblicana. Ad esempio, ciò che Napolitano anticipò in una sorta di manifesto programmatico del settennato il 15 maggio 2006, giorno dell’insediamento, quando definì la Costituzione «il sostrato dell’unità nazionale», un patto «rigido ma non immutabile», purché lo si revisioni secondo le regole e senza toccarne la prima parte (il cui «ancoraggio» non significa «conservatorismo») e comunque «con largo consenso». Ma vale anche, altro esempio, ciò che disse il 19 dicembre 2007, alla vigilia di un anniversario tondo della Carta: «La Costituzione è una signora di sessant’anni che presenta assai più valori che rughe… ora, come sappiamo, si possono ben togliere le rughe dal volto di una signora. Questo credo che dobbiamo farlo. L’importante è che rimangano intatti, conosciuti e amati i suoi lineamenti fondamentali». E vale, infine, il suo intervento alla «Biennale Democrazia» di Torino, il 22 aprile 2009, dove, dopo aver ammonito che la Carta non è «un residuato bellico», evocò ancora una volta «una rinnovata stagione costituente», poggiata sulla «più larga condivisione».
Per inciso, quell’iniziativa torinese faceva capo proprio a Zagrebelsky, il quale invitò Napolitano a inaugurarla con una prolusione, senza poi esprimere alcuna riserva. E — secondo inciso — nessuno rammenta che il tema è nell’agenda della politica italiana da lungo tempo e, se ci si riferisce alla Seconda Repubblica, almeno dall’esordio di Oscar Luigi Scalfaro (poi assurto a simbolo dell’intoccabilità della Costituzione) in veste di presidente, il 28 maggio 1992, 21 anni fa. L’ex padre costituente, infatti, allora usò parole drastiche: «Rivolgo un rispettoso ma fermo invito al Parlamento perché proceda alla nomina di una Commissione bicamerale, con il compito di una globale e organica revisione della Carta nell’articolazione delle diverse istituzioni…».
Che cosa è cambiato da allora? Che cosa c’è di diverso, adesso, dalle sollecitazioni avanzate oggi dal Quirinale? Nella logica del capo dello Stato, quanto è accaduto finora, e ciò che potrà accadere nell’immediato futuro, è semplice e non lo riguarda più. In definitiva: lui non può più essere chiamato in causa, perché non è lui che elabora le riforme. Le prime proposte di modifiche costituzionali stanno già lì, nero su bianco, in un documento che è pubblico e che rappresenta la conclusione dei lavori della Commissione. Questo è un documento che contiene diverse opzioni, quindi la possibilità di scelte in un senso e nell’altro, e che viene rimesso — non appena sarà definitiva la leggina costituzionale ad hoc — al Parlamento… al Comitato dei Quaranta (diverso dal piccolo Comitato di saggi insediato dal Colle il 30 marzo) e alla Commissione Affari costituzionali. Ecco la naturale riflessione del Quirinale: chi ha da dire qualcosa, la dica nel merito… chi ha da obiettare che una determinata proposta porta magari a far deragliare dalla via maestra della Costituzione, lo dica.
I fatti sono questi. E Napolitano vorrebbe che valessero anche per la bufera rinfocolata sui temi dell’amnistia e dell’indulto. Lui — ha insistito da subito — non ha fatto alcun messaggio alle Camere per l’amnistia, ma un messaggio per la questione carceraria. Un avvertimento, per segnalare che la sentenza dell’Unione Europea del 28 maggio 2013 ha messo l’Italia in mora e con la concreta prospettiva di una nuova condanna prima che passi un anno, se non s’interverrà presto. Con il rischio di veder accolti tutti i ricorsi per risarcimento danni — centinaia sono già pendenti, ma si parla di qualche decina di migliaia potenziali, con richieste allo Stato di 100.000 euro per ogni singolo caso — per le condizioni in cui da noi vivono i detenuti. Un testo (cui hanno collaborato esperti d’indiscutibile valore), nel quale il capo dello Stato faceva il calcolo dei rischi, dei danni, di quanto tempo ci rimane per correre ai ripari. E indicava diverse strade, oltre all’amnistia o all’indulto sulle quali sono scattate preclusioni e indisponibilità, tipo quella espressa ruvidamente da Renzi («qualche volta si può dire anche di no a Napolitano»). Ossia la proposta presidenziale per certe innovazioni strutturali, per una differente politica di gestione dei penitenziari, e così via.
Restano infine i nuovi attacchi dei 5 Stelle, con minaccia di messa in stato d’accusa agitata giusto nel momento in cui il Movimento mostrava difficoltà e divisioni interne. Neppure a loro reagirà, il presidente. Ridicolaggini, come quando sente sentenziare da qualcuno che lui avrebbe fatto «un intervento a gamba tesa» sul Parlamento, senza conoscere il penultimo comma dell’articolo 87 della Costituzione, dove il messaggio alle Camere è configurato come un potere formale del presidente della Repubblica e di sicuro chi lo abbia letto non può azzardare ipotesi di una «gamba tesa»…
L’atteggiamento è dunque di amaro distacco. Come di chi pensa: benissimo, mettano in moto il procedimento, se sanno come lo si mette in moto e come è regolato, poi il Parlamento deciderà.
Marzio Breda


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