I parenti che ce l’hanno fatta «Il loro sogno era raggiungerci»

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LAMPEDUSA — Di giorno li puoi trovare seduti ai tavoli del ristorante di fronte alla caserma dei carabinieri. Parlano fra loro, ogni tanto qualcuno fruga nelle tasche e tira fuori una fotografia, sempre più spiegazzata, sempre più consumata. Di sera se ne stanno lungo i muretti di Cala Palma o fanno la spola fra il porto e via Roma, il cuore di Lampedusa. Sono i parenti dei naufraghi morti il 3 ottobre davanti all’Isola dei Conigli, sono qui per avere qualcosa di persone che amavano e che non trovano più. E «qualcosa» sta per «qualsiasi cosa», notizie tanto per cominciare.
Arrivano da Roma, Milano, Siracusa, dalla Svizzera, dalla Germania, o magari dall’Inghilterra, dalla Svezia, dalla Norvegia, perfino dal Canada (un padre che cerca sua figlia), e chissà da quale altro Paese del mondo. Tutti eritrei fuggiti anni fa e ormai con un’altra lingua nella testa, con un lavoro e un permesso di soggiorno in tasca. Loro ce l’hanno fatta ma oggi sono anime in pena su questo sasso in mezzo al mare. Pregano in silenzio che nell’album fotografico della morte, mostrato dai carabinieri assieme a uno staff di psicologi, non ci sia la faccia, il tatuaggio, la cicatrice o un oggetto riconoscibile di una madre, una sorella, un fratello, un marito o qualche amico. Ogni tanto qualcuno si lascia andare alla disperazione, segno che a un corpo è stato dato un nome.
C’è Habton che viene da Leeds, nord dell’Inghilterra. Lì fa il magazziniere per una grande società e questa è la sua prima volta a Lampedusa. «Mi hanno fatto vedere delle fotografie» racconta. «E ogni volta che stavo per vederne un’altra avevo il cuore che batteva forte. Poi l’ho riconosciuto…». Una pausa per ricacciare indietro le lacrime. «Mio fratello è identico a me, difficile avere anche un piccolo dubbio. È in una di quelle bare in fila che si vedono in televisione. L’avevo sentito al telefono quand’era ancora in Libia, mi aveva detto che stava arrivando…». Cercava più fortuna e più vita, proprio come aveva fatto Habton sei anni fa. Sognava l’Inghilterra e c’è arrivato, si è trovato un lavoro e ha scritto a sua moglie: «Sono felice, qui sto bene». Finalmente, pensò, i miei figli non faranno più la fame.
Poi c’è la storia di Weldezghi, che ha dell’incredibile. Questo ragazzo di 28 anni dal nome impronunciabile è approdato in Norvegia cinque anni fa. Partito dal Sudan con il passaporto falso, si era messo in testa giovanissimo di raggiungere la comunità eritrea norvegese. E appena ne ha avuto l’occasione l’ha fatto davvero. A Oslo, dove fa l’infermiere professionale, lo chiamano Wisky e sono stupefatti dalla sua capacità di parlare il norvegese. Lui studia anche l’inglese e mai avrebbe immaginato di usarlo per parlare di un naufragio con la nostra Guardia costiera. L’altro giorno lo hanno cercato dall’Eritrea: «C’è stata una disgrazia, devi provare a metterti in contatto con tuo fratello e tua sorella». Allora è andato a cercare su Internet le immagini, appunto, della Guardia costiera trasmesse dalle televisioni italiane. E ha visto un naufrago con una maglia gialla mentre i soccorritori lo caricavano su una motovedetta: era suo fratello, salvo. L’ha riconosciuto al volo anche se non lo vedeva da otto anni. Ha registrato tutto con il telefonino ed è venuto a Lampedusa. Ma con sua sorella non ha avuto la stessa fortuna. Lei che tanto avrebbe voluto vedere la Norvegia, adesso è uno dei tanti volti dell’album della morte.
Storie e coincidenze che sembrano il copione di un film. Come quella di padre Musie Shishay, prete ortodosso arrivato da Milano per cercare la sorella Hagerawit fra i migranti finiti in mare il 3 ottobre. «L’ho appena identificata» dice abbassando gli occhi dopo un’ora passata in caserma. «E pensare che anch’io sono arrivato qui a Lampedusa cinque anni fa…». Anche lui su un barcone, da clandestino, «dopo tre giorni in mare che non si possono raccontare per quanto sono stati pazzeschi. Posso immaginare la mia povera sorella…» sospira. Dice che se si fosse salvata e fosse arrivata fino a lui, Hagerawit avrebbe trovato una vita difficile perché fare il prete non rende niente e in Italia trovare un lavoro è un sogno. Ma adesso tutti questi pensieri non valgono niente. «Quello che vorrei, ora, è riportarla a casa, dalla mia famiglia».
Negli orari che i carabinieri dedicano all’identificazione dei morti si vedono gruppi di persone aspettare davanti al portone. Fra loro anche gente che parla in svedese. Come Adal, venuto a sperare che suo fratello non fosse fra le foto dei cadaveri. Apprezzato assistente per anziani a Stoccolma, Adal, ha un passato da uomo errante. Dall’Eritrea è partito una prima volta su un barcone che i maltesi hanno fermato e rimandato indietro. Ritorno a casa e poi di nuovo ad attraversare il deserto per darsi un’altra chance. Si è fermato in Sudan due anni a cercare il momento giusto per la traversata. Ma poi, direttamente dal Sudan, ha presentato una domanda di asilo all’ambasciata svedese. Non si sa mai… E dalla Svezia è arrivata la risposta: un sì, con un biglietto aereo di sola andata per Stoccolma. A questo pensava Adal mentre, confuso dal dolore, guardava le fotografie dei naufraghi morti. Ha creduto di riconoscere suo fratello in due immagini. Non è sicuro, o forse non vuole esserlo. Poco importa. La sola cosa che vuole è il test del dna per non sperare invano di vederlo arrivare da un momento all’altro a casa sua. A Stoccolma .
Giusi Fasano


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