«Stati uniti arroganti», Pechino rilancia la «sovranità digitale»

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La Cina, da grande accusata per essere la responsabile dello spionaggio industriale ai danni degli Stati Uniti, diventa l’ironico castigatore delle smanie spionistiche americane, a seguito dello scandalo Datagate.
È il contrappasso di una vicenda che è nata proprio in zona cinese, a Hong Kong, e che ha finito per propagarsi nel resto del mondo, nascondendo la fase precedente – le accuse alla Cina – e rilanciando di fatto l’industria della sicurezza nazionale, non ancora spinta al massimo al di qua della Muraglia. La portavoce del Ministero degli Esteri, Hua Chunying, ieri durante una conferenza stampa ha annunciato che a seguito dello scandalo Datagate, «la Cina è preoccupata e sta prestando attenzione allo sviluppo della vicenda. Prenderemo le misure necessarie per mantenere rigorosa la sicurezza delle nostre informazioni». Si tratta di un annuncio che presuppone nuovi investimenti nel settore della sicurezza, in grado di aumentare ancora di più la potenza di fuoco tecnologica di Pechino.
Grazie a Snowden e alle sue rivelazioni, Pechino si prende una rivincita diplomatica mondiale – dopo aver accusato gli Usa e Obama di «ipocrisia» – cui segue la scoperta di mettere in «sicurezza» i propri dati, pubblici e privati. Nel febbraio dello scorso anno un report dell’azienda americana Mandiant, accusava apertamente la Cina di spionaggio industriale ai danni degli Usa. La questione fu considerata talmente rilevante che il documento venne presentato al Congresso e sulla stampa americana apparvero anche le foto degli uffici, a Shanghai, dove si sarebbero annidati gli hacker cinesi.
La questione della sicurezza informatica e il sospetto che molti degli attacchi subiti da organizzazioni e aziende americane arrivassero dalla Cina, era il punto più forte delle rivendicazioni americane nei confronti di Pechino. Se la Cina poteva fare la voce grossa per i rapporti economici e commerciali in atto con Washington, Obama giocava la carta «sicurezza» come quella determinante nel riportare Pechino al suo posto, in posizione subordinata al peso americano nel mondo. Con queste speranze Obama ha invitato Xi Jinping in California la scorsa estate. Neanche il tempo di mostrarsi in maniche di camicia sui verdi prati californiani che l’ex agente Nsa Snowden rilasciava quello che sembra essere un fluire di informazioni continuo. E a finire dalla parte degli spioni è toccato a Wasghington.
Per di più Snowden si era rifugiato a Hong Kong, proprio nella bocca del lupo. La Cina da paese che esercita censura e attacchi informatici diventava il piedistallo della libertà che consentiva a Snowden di rivelare i segreti della più grande operazione di spionaggio della storia. Ieri sulle pagine del China Daily, Shi Yinhong, esperto di studi americani della Renmin University of China, specificava che «percependo se stessi come una superpotenza, gli Stati Uniti mantengono l’atteggiamento arrogante secondo il quale non è un problema rubare informazioni di altri paesi». La Cina naturalmente non si diverte solo a stuzzicare gli alleati-rivali americani, ma ha un duplice obiettivo.
In primo luogo lo scandalo Datagate rafforza le sue convinzioni circa il concetto di «sovranità digitale» con cui Pechino rimanda al mittente ogni critica sui propri sistemi di controllo interni.
In secondo piano c’è l’ambito più rilevante, quello relativo allo sviluppo e all’aumento dei propri sistemi di sicurezza. «Quelli che operano in questo settore, devono ringraziare Snowden», ha detto Yuan Shengang, amministratore delegato della Netent Sec. – una software house cinese – alla «Conferenza sulla sicurezza informatica» svoltasi a Pechino a fine settembre.
La differenza tra gli investimenti cinesi e quelli americani sono clamorosi: il governo degli Stati Uniti avrebbe speso 6,5 miliardi dollari per la sicurezza, la Cina solo 400 milioni. Il settore privato americano avrebbe investito 4,3 miliardi dollari su una vasta gamma di prodotti per la sicurezza informatica, a fronte dei soli 80 milioni delle aziende cinesi.


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