Che cosa si prova a essere un profugo

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 Era il 1940, e di quella spaventosa odissea ricordo ovviamente la fame, o meglio, l’insopportabile dolore fisico che provocava la fame. Ma quello che mi affliggeva maggiormente era sentire che non eravamo mai i benvenuti. Ogni volta che arrivavamo in un villaggio, venivamo arrestati da una pattuglia dell’Armata rossa, e i soldati ci urlavano: «Tornatevene da dove venite». Ma tornare indietro, per noi significava finire in una camera a gas e bruciare in un forno.
A questo ho pensato appena ho saputo della spaventosa sciagura di Lampedusa. Come allora la mia famiglia, anche gli africani che sono morti ieri non potevano tornare indietro. I disgraziati che arrivano dall’Africa sulle carrette del mare, mi ricordano anche un’altra tragedia alla quale ripenso spesso. Siamo nel 1938, e decine di migliaia di ebrei cominciano a fuggire dalla Germania nazista, dalla Cecoslovacchia già annessa da Hitler e dall’Austria. Ma nessuno li vuole. La Società delle Nazioni organizza allora una conferenza a Evian per decidere che cosa fare di questi rifugiati. Un solo Paese al mondo è pronto a riceverli, la Repubblica domenicana! Gli Stati Uniti dicono che non possono superare la loro quota di immigrati, la Gran Bretagna non voleva che questi ebrei raggiungessero la Palestina, la Francia ospitava già troppi ex repubblicani spagnoli, l’Italia non si pronunciò neanche. La prima domanda che sorge spontanea è la seguente. Quali progressi ha compiuto l’umanità dal 1938 a oggi? E la risposta
è purtroppo una sola: non ne abbiamo compiuto alcuno.
Certo, davanti alla strage di Lampedusa, tutti s’indignano o si dicono sconvolti da tanto orrore, il Papa per primo. C’è un’altra domanda alla quale dobbiamo subito dare una risposta. Che cosa possiamo fare per impedire che ciò avvenga di nuovo. Come fermare queste migrazioni dall’Africa di chi fugge guerre tra clan, conflitti religiosi, corruzione, disoccupazione, carestie? È la pulsione vitale degli africani che li spinge a lasciare il loro inferno: lo fanno attraversando a piedi il deserto del Sinai diretti verso Israele, o mettendosi nelle mani dei mercanti di morte che li caricano su vecchi pescherecci per arrivare dall’altro lato del Mediterraneo.
Che fare, allora? Come prima cosa, credo che sarebbe indispensabile trascinare davanti alla Corte penale internazionale quei leader africani responsabili dei disastri umanitari che affliggono il Continente nero. Se il mondo avesse potuto fare lo stesso con Hitler, quando questi decise di conquistare l’Europa, milioni di vite sarebbero state risparmiate. Come secondo punto, andrebbero riuniti i Paesi più ricchi del pianeta per dichiarare d’urgenza un piano Marshall per l’Africa, controllato ovviamente dai donatori, e che stabilirebbe che chi sfrutta le risorse locali dovrà impiegare lavoratori africani (e non come fa Pechino, per esempio, che nelle enormi regioni che ha acquistato in Congo, Zambia o Angola importa mano d’opera dalla Cina). Infine, dovremmo organizzare una nuova conferenza di Evian, dove tenendo a mente quanto accadde nel 1938, i Paesi più sviluppati potranno dividersi quei migranti che continueranno ad arrivare in Europa, in attesa che si concretizzino le iniziative più virtuose per salvare il Terzo e il Quarto mondo.
I più pessimisti diranno che queste sono soluzioni utopistiche. Ma quando avvengono tragedie di questa portata ogni soluzione può sembrare tale. L’importante è reagire. Il mondo non ha mosso un dito per salvare i rifugiati armeni che fuggivano dal genocidio turco, né gli ebrei dalla shoah, né i cambogiani massacrati dai khmer rossi o i tutsi fatti a pezzi dagli hutu in Ruanda.
L’Occidente deve rendersi conto che agire è nel suo proprio interesse, perché prima o poi, anche se molti migranti continueranno a morire per strada, saranno sempre più numerosi quelli che arriveranno nel nostro mondo ricco. E poi, siamo tanti su questo pianeta, più di sette miliardi di umani. Che ci vuole a spartirsi quel milione di rifugiati che provengono dai Paesi più poveri? Che ci costa nutrirli, scaldarli, offrire loro un tetto sotto cui rifugiarsi per evitare che muoiano annegati o bruciati sui barconi dei mercanti di morte.
Dall’Uzbekistan, alla fine della guerra sono finalmente arrivato a Parigi. Ho cominciato a conoscere la libertà imparando il francese. Ancora oggi, uso questa lingua nella speranza di far qualcosa per la libertà degli altri. Anche perché non dimenticherò mai l’orrore che si prova quando fuggi dall’inferno credendo di trovare il paradiso, ma è in un altro inferno in cui ti trovi. Proprio come è accaduto ieri a quei poveri disgraziati.


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