Da Praga a Belgrado La nuova vita dei comunisti dell’Est

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«Come Cristoforo Colombo, non sanno dove stanno andando, non sanno dove sono, e tutto a spese degli altri». I comunisti secondo Winston Churchill. Dove sono finiti oggi? Con l’implosione dell’Unione Sovietica nel 1991, l’addio agli schieramenti e la nascita di Stati democratici decisi ad abbracciare l’economia di mercato ed entrare nella famiglia europea, i partiti nei diversi contesti nazionali dell’Est si sono trovati allo stesso bivio: restare fedeli alla purezza del verbo marxista-leninista a costo di veder ridimensionato il proprio ruolo oppure — opzione maggioritaria — avviare un’operazione ideologica di «socialdemocratizzazione» che attenuasse o recidesse i legami con i regimi per guadagnare un posto nei nuovi assetti. Una scelta compiuta in un’epoca di trasformazioni economiche e sociali che con lo stabilizzarsi dell’ordine capitalista hanno riportato in primo piano i grandi temi sociali, spesso sottratti al monopolio della sinistra da formazioni di tendenza populista. Un riassetto che s’inserisce nel generale, doloroso processo di elaborazione del passato tra rese dei conti e nostalgie.
Al primo macro-gruppo appartengono i comunisti che hanno conquistato il terzo posto alle elezioni politiche di sabato scorso in Repubblica Ceca. Un risultato che infrange un tabù e apre uno scenario inedito: per la prima volta dalla fine del regime a Praga una formazione «purista» può ambire a un ruolo di governo, anche se i numeri rendono la prospettiva poco praticabile. Il partito comunista di Boemia e Moravia — erede dei comunisti cecoslovacchi che dopo la Rivoluzione di Velluto del 1989 si divisero nei due rami di Praga e Bratislava — ha ottenuto il 14,9% dei voti, piazzandosi dietro ai socialdemocratici prima forza e ai populisti del ricco imprenditore Andrej Babis. Insieme, però, socialdemocratici e comunisti dispongono solo di 83 seggi sui 200 della Camera bassa del Parlamento, le consultazioni tra i partiti si annunciano lunghe e complicate.
Il rapporto diretto con la matrice sovietica è evidente nei Paesi baltici. In Lettonia il Partito socialista, emanazione dei comunisti banditi al termine della Guerra fredda e forte tra la minoranza russa, s’impone per statuto la difesa degli ideali compromessi dal «colpo di Stato borghese-nazionalista e contro-rivoluzionario» del 1991, l’anno della dichiarazione d’indipendenza dall’Urss.
Possibile anello di congiunzione tra le due famiglie, la tedesca Linke, che riunisce gli eredi del Partito socialista unificato della Ddr e i fuorusciti della Spd (il Partito socialdemocratico che al congresso di Bad Godesberg del 1959 si svincolò dal marxismo): ideologicamente fedele alle origini e connotata come formazione di estrema sinistra, alle elezioni federali dello scorso settembre ha ottenuto l’8,6% dei consensi, 64 seggi su 630, terza forza al Bundestag.
Inclusi invece a pieno titolo nelle vicende istituzionali i post-comunisti bulgari confluiti nel Partito socialista oggi guidato da Sergei Stanishev, primo ministro dal 2005 al 2009. In Serbia l’attuale premier è Ivica Dacic, leader del Partito socialista fondato nel 1990 da Slobodan Milosevic sui resti del ramo serbo della Lega dei comunisti, unica formazione legale in Jugoslavia tra 1945 e 1990.
L’ex comunista Aleksandr Kwasniewski è diventato presidente nella Polonia che ha ispirato la transizione al principio della «linea tracciata sul passato» evocata nel 1989 da Tadeusz Mazowiecki — processo d’inclusione e riconciliazione minacciato negli anni da provvedimenti come le leggi di lustracja sull’esclusione degli ex comunisti dalla vita politica. Ministro dello Sport con il regime negli anni 80 e fondatore nel ’91 dell’Alleanza della sinistra democratica oggi all’opposizione, Kwasniewski è rimasto in carica fino al 2005. Alle elezioni del ’95 aveva sconfitto Lech Walesa, l’eroe della lotta al comunismo.
Maria Serena Natale


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