GLI SPIFFERAI MAGICI E I CANI DI KANT

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Forse perché non è più cruciale come si pensava, né così fidato? Queste e altre domande hanno agitato il summit europeo dei giorni scorsi, ma oltre l’apparenza non si è andati. In parte per ignavia, in parte per quieto vivere, in parte per ossequiosa furberia, il comunicato dei capi di Stato o di governo riuniti a Bruxelles s’attarda sullo stile della poco cavalleresca intrusione, sulla rozza insensatezza delle liste di indiziati o sospetti. Il modo ancor li offende. Non il perché: quasi non li riguardasse, né in fondo li incuriosisse. Il perché è anzi tra le righe giustificato («la raccolta di intelligence è un elemento essenziale nella lotta contro il terrorismo»). In nessun passaggio del comunicato ci si chiede: ha senso affastellare dati su tutti e su tutto, su fidati e non fidati, su amici e nemici da abbattere — alla rinfusa, sotto la stessa regia — e gabellare questa maniacale compilazione di liste per lotta al terrorismo?
Se così non fosse, se i capi europei esaminassero alle radici le offese che d’un colpo scoprono di subire e il loro rapporto con gli Stati Uniti (ma anche con Londra, non meno implicata nello spionaggio), ben altra sarebbe stata da principio la loro reazione. Da tempo conoscevano gli intrichi dell’Agenzia di sicurezza, sin dal 6 giugno Edward Snowden li aveva rivelati al giornalista Glenn Greenwald; la notizia già era apparsa sul Guardian, sul Washington Post, su Spiegel.
Ma lo sdegno aveva colpito il denunciatore, non l’impazzita macchina di spionaggio. Snowden fu catalogato come talpa, spia: anche da giornali che si dicono indipendenti, ma son usi a prender per buone le versioni ufficiali (da allora Greenwald parla di
presstitutes, prostitute della stampa). Washington accusò Snowden di tradimento, e i governi europei abbozzarono.
Non li sfiorò l’idea di offrire rifugio in Europa a chi viene chiamato, da secoli, non già spia ma whistleblower (le leggi Usa proteggono i «suonatori di fischietto» dal XVIII e XIX secolo).
Whistleblower è chi obbedendo alla propria coscienza denuncia misfatti dell’organo o del sistema che l’impiega. È un disobbediente civile: come Snowden, o Bradley Manning che rivelò a Wikileaks le malefatte americane in Iraq. Se giornalista alla maniera di Greenwald, è cane da guardia; vigila sui soprusi dei potenti. Secondo Kant aiuta a emancipare i cittadini, li rende adulti: cosa possibile solo se nasce uno spazio pubblico non asservito al comando politico, forte dei Lumi, non tenuto all’oscuro. «Hanno ristretto l’influenza della sfera pubblica»: è una delle accuse di Snowden ai governi Usa.
Snowden ha trovato asilo nella Russia di Putin, non in Europa dove è tuttora considerato un paria. Il giudizio non muta neanche dopo lo scandalo dei telefonini intercettati. Rispondendo ai giornalisti, venerdì a Bruxelles, Enrico Letta è stato perentorio. Il
whistleblower resta un reietto: «Non penso che (la sua) sia un’attività utile e positiva: crea problemi e non produce gli effetti di “disclosure” che pretende». In realtà Snowden ha scoperchiato le verità della Nsa (perché parlare di «disclosure», quando c’è l’antica parola Lumi?), ma quel far luce e divenire adulti non è utile né positivo. Logicamente questo significa che altro è utile, tra Europa e Usa: il nascosto, la negazione della parresia ovvero della libera informazione e del libero parlarsi. Quanto all’Unione, significa nutrire l’abitudine alla subalternità del minorenne. Il quieto vivere, talmente meno costoso, ti libera da responsabilità ed è a questo prezzo. Per citare ancora Kant: sapere aude— osa sapere — è sin dai tempi di Orazio impresa troppo incandescente. Meglio definirla non positiva «ai fini della disclosure».
Questo spiega i toni del comunicato di Bruxelles: toni melodrammatici — le «profonde preoccupazioni» dei cittadini europei; l’appello
a «più rispetto, più fiducia» — ma privi di proposte pratiche che vadano al di là di poco specificate iniziative e di colloqui bilaterali che Parigi e Berlino avranno con Obama (perché non l’Unione in quanto tale? perché l’Italia non colloquierà?). Rispetto e fiducia sono sentimenti pieni di rumore che non significano nulla, se non producono patti vincolanti e ordini internazionali non più egemonizzati dalla superpotenza. Tanto più essenziale è soffermarsi sul perché del Datagate, e metterlo in relazione con le guerre al terrorismo: con i suoi fallimenti, le sue degenerazioni sotto la presidenza Obama, l’intreccio perverso creatosi fra le informazioni raccolte sugli alleati e quelle che danno vita alle kill list, le uccisioni mirate dei terroristi indiziati. I servizi segreti compilano probabilmente le une e le altre, con l’assenso del potere politico. Questo allarma. Ecco perché la solidarietà dovrebbe andare, se l’Europa è patria del libero confronto di idee, alle persone che smascherano piani antiterrorismo sfuggiti a ogni controllo. Definirle inutili vuol dire approvare una guerra che prosegue in altro modo, non dichiarata ma surrettizia, e considerare proficuo (anche se i modi offendono) quel che maggiormente la caratterizza: le raccolte dati interamente fondate sul sospetto, e l’affidarsi a mezzi tecnologici che «determinano con la forza dell’inerzia il fine prefissato», storcendo il fine stesso e confondendo tattica e strategia (è la tesi del giurista Stephen Holmes,
London Review of Boooks, 18 luglio 2013).
Il Datagate riguarda solo marginalmente i governanti origliati urbi et orbi. Militarmente è al servizio di un dispositivo d’aggressione, collaudato da Bush jr e dilatato da Obama. Lo scopo è ridurre a zero le guerre di terra — costose finanziariamente, invise in patria — e colpire da lontano, senza più sporcarsi le mani (i droni ai tempi di Bush erano 167, oggi 7000). L’offensiva dei droni (Pakistan, Yemen, Somalia, Libia, ecc) è senza epiloghi e volutamente «non fa più prigionieri », sciogliendo nell’infamia la questione Guantanamo: i «combattenti illegali» sono liquidati nella notte e nella nebbia. Altro sostanziale vantaggio: la stampa non è mai presente.
Anche se non si chiamano più guerre (ma «operazioni d’emergenza esterna»), la dottrina è sempre quella di Bush jr: l’America è fortezza assediata, militarmente ed economicamente, che non si fida di nessuno e sospetta tutti — avversari reali e potenziali, amici fidati o competitori infidi. È stata denominata dottrina dell’Uno per cento, e fu il vicepresidente Dick Cheney a formularla per primo, nel 2006: «Se esiste un 1 per cento di possibilità che gli scienziati pakistani stiano assistendo Al Qaeda nello sviluppare un’atomica, dobbiamo trattare questa possibilità come una certezza, dal punto di vista della risposta. Qui non è in gioco la nostra analisi, ma la nostra risposta».
Risultato: a dodici anni dall’11 settembre 2001, si affronta il mondo con la stessa ignoranza militante di ieri, lo stesso sprezzo d’ogni
analisi. Solo la risposta conta: quale che sia, giusta o sbagliata, purché si presenti come certezza non confutabile. Purché confermi l’America come superpotenza che non conosce limiti, né autorità superiori o pari alla propria. Che declina magari finanziariamente, ma non politicamente e strategicamente.
Che l’Europa creda ancora a questa favola raccontata da un idiota, senza mai discutere con l’alleato il senso e la natura delle guerre, senza mai osare sapere, fa di lei null’altro che «un’ombra che cammina».


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