Il premier contrariato per la mossa del Pd Alfano: intese violate

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ROMA — «Il Pd ha esagerato», gli ha detto Alfano. E Letta non ha potuto dargli torto, mostrandosi contrariato mentre ascoltava le critiche del vice premier sull’«ingovernabilità» del suo Pd, che sulla presidenza dell’Antimafia «non è stato ai patti». Certo, sulle intese di maggioranza nessun partito può permettersi di scagliare la prima pietra, ma non c’è dubbio che questo patto sia stato violato, se è vero che Epifani — giovedì scorso — aveva affrontato la questione con il segretario del Pdl, garantendo l’intesa su una soluzione di compromesso che avrebbe dovuto portare alla guida della commissione un esponente di Scelta civica. Ma quando l’altra sera la Bindi — sbattendo i pugni — ha reclamato il seggio e ha chiesto a Epifani di stare ai patti concordati ai tempi del battesimo delle larghe intese, il compromesso prima ha vacillato poi è saltato.
Che non si tratti (solo) di un problema di poltrone è evidente al presidente del Consiglio, rammaricato di non esser riuscito a evitare questo ulteriore elemento di fibrillazione, che in un solo colpo lo indebolisce nel suo partito, indebolisce Alfano e l’area dialogante del Pdl, e finisce per alimentare l’instabilità a tutto vantaggio di chi — come Renzi — confida ancora di sfruttare la finestra elettorale di marzo. Magari con il contributo del neopicconatore Monti, apprezzato ieri pubblicamente dal sindaco di Firenze per aver «impedito a Berlusconi di conquistare il Quirinale». Una frase che non è sfuggita a Palazzo Chigi…
Sul «caso Bindi», insomma, l’analisi accomuna il premier e il suo vice, in grado finora di tenere in piedi il governo con una capacità che neanche le leggi della fisica riuscirebbero a spiegare. Eppure in piedi l’esecutivo sta, sebbene la terza via di Letta e Alfano si stia trasformando in un viottolo, diventato ancor più accidentato. Perché, per usare una metafora del capogruppo pdl Brunetta, «un pugile può andare al tappeto con un colpo solo o per effetto di una serie di colpi. La rottura del patto sulla commissione Antimafia rischia di essere il colpo di una serie». La governabilità invocata dal Colle si scontra con l’ingovernabilità dei partiti di maggioranza, in preda a convulsioni interne che dal Pd al Pdl sono arrivate a Scelta civica, dove ieri si è dimessa anche la vicepresidente Maria Paola Merloni, «a disagio» per le polemiche innescate da Monti.
Non si salva nessuno. E questo complica la vita a Letta e rende difficile la vita ad Alfano. Il primo intuisce che il patto con Renzi è scritto sulla sabbia, che il rottamatore vuol metterlo alle strette e giocare al rilancio elettorale dopo aver vinto le primarie del Pd, per non finire intrappolato nella ragnatela delle correnti e logorato nella gestione del partito. Il secondo deve a sua volta fronteggiare le reciproche provocazioni che alimentano il conflitto nel Pdl tra «innovatori» e «lealisti», ai quali il «caso Bindi» ha fornito un formidabile assist. Perché non basta, non può bastare, l’idea di delegittimare la neopresidente dell’Antimafia, decidendo di disertare i lavori della Commissione. Il primo a saperlo è Alfano. Il nodo è politico, provoca — come sostiene Brunetta — una «insopportabile asimmetria» tra le sorti della pasionaria del Pd e le sorti della pasionaria del Pdl, Santanchè, vittima di un veto dei Democratici che le ha sbarrato la strada alla vicepresidenza della Camera: «Prendo atto — ha commentato la “pitonessa” — che questo è un governo monocolore. E che sta bene a tutti».
Il «tutti» è Alfano, su cui si concentrano gli attacchi degli avversari interni. Con lo sguardo (un po’) distaccato di chi siede a Strasburgo e l’antico eloquio democristiano, Mastella osserva i pidiellini e li dipinge con un solo colpo di pennello: «Non so se si scinderanno, di sicuro non stanno già più insieme». A tenerli uniti dovrebbe essere Berlusconi, se non fosse che il suo quotidiano esercizio ecumenico è funzionale all’appuntamento decisivo della decadenza. Nonostante i «lealisti» premano perché convochi subito l’ufficio di presidenza del Pdl — in modo da arrivare alla resa dei conti con gli «innovatori» — il Cavaliere temporeggerà, continuerà il balletto delle riunioni separate e non assumerà decisioni sul partito prima del voto del Senato: qualsiasi scelta potrebbe innescare reazioni nel suo gruppo parlamentare e danneggiarlo nel segreto dell’urna…
Alfano sta in mezzo al guado, sa che il pressing dei falchi perché sia Palazzo Chigi a sciogliere il nodo della decadenza di Berlusconi non è un modo per risolvere il problema ma solo per far saltare il banco. Così per un verso tiene il punto sul governo, per un altro tiene stretto il rapporto con il Cavaliere in un gioco psicologico e politico dove legame personale e ragioni di Stato si intrecciano. È una dinamica che nessuno per ora è riuscito a scalfire. Ed è vero, per esempio, che l’ex premier si è irritato per la «lettera dei 24» — scritta a difesa dell’esecutivo — ma è vero anche che la mossa è servita a fargli abbassare i toni, perché la faccenda non può essere gestita come una monelleria di ragazzini.
È così, contravvenendo alle leggi della fisica, che il governo è ancora in piedi. E per allargare il sentiero della terza via, Alfano ieri ha provato a disinnescare nel Pdl la mina della legge di Stabilità: «Certo che si può cambiare, mica è il quinto vangelo». E dietro lui anche Letta: «Ci sono molti miglioramenti da mettere in campo». Sennò come si resterebbe in equilibrio ?
Francesco Verderami


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