IL TRAMONTO DI UNA STAGIONE

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Per la prima volta il capo del centrodestra perde la leadership carismatica per mano di alcuni dei suoi uomini più vicini. Un processo che fisiologicamente accade in tutti i partiti democratici, ma che mai si era verificato nel Pdl o in Forza Italia. Creature nate e sagomate intorno alla figura di Silvio Berlusconi. Una formazione “proprietaria” in cui nessuno aveva la facoltà di mettere in discussione il leader. Il suo “delfino” storico, quasi trascinato dagli eventi, si è dotato di quel “quid” che il Cavaliere non gli riconosceva e — sebbene nel momento di maggiore fragilità del padre putativo — lo ha costretto alla resa.
Una disfatta che appunto può determinare una serie di conseguenze sull’esecutivo e sul sistema. Letta ha infatti irrobustito la sua dote numerica in Parlamento e soprattutto ha svincolato la vita del governo dal destino giudiziario di Berlusconi. Che tra due settimane, con il voto sulla decadenza, sarà segnato.
Eppure tutto questo potrà essere considerato una condizione strutturale solo ad alcune condizioni. Ossia che il ruolo dell’ex leader diventi concretamente marginale. Un passaggio fondamentale sarà allora costituito dalla formazione di gruppi separati alla Camera e al Senato. Alfano, che in questa fase rappresenta il naturale punto di riferimento nel “nuovo partito”, dovrà confermare il suo ruolo segnando una distanza anche fisica dai “falchi”. Le “colombe” sono convinte di poter contare sulla maggioranza dei parlamentari e sembrano non voler accelerare su questo percorso per “prendersi” con le buone tutto il partito. Eppure una cesura è indispensabile. Per il segretario del Pdl, si tratta soprattutto di gestire il rapporto con il premier e con il Partito democratico. Non può nemmeno dare l’impressione di essere risucchiato nei prossimi giorni nel vortice berlusconiano. Il premier e il partito di Epifani devono sapere se nei prossimi giorni, quando si dovrà ad esempio discutere i contenuti della Legge di Stabilità, avranno come interlocutore il nuovo o il vecchio capo. Non è un caso che proprio Letta abbia insistito ieri nel marcare la differenza tra la maggioranza numerica e quella politica. Un modo per dire che i voti ricevuti dai “berlusconiani lealisti” non sono più presi in considerazione come ieri si sono rivelati irrilevanti al momento della fiducia.
Non solo. Per il Pd sarebbe insopportabile dare ossigeno ad una coalizione di larghe intese in cui il dominus veste ancora i panni di Berlusconi. I democratici saranno costretti a piantare dei paletti soprattutto in vista del prossimo congresso. E quei paletti saranno più alti se a dicembre sarà Matteo Renzi il nuovo segretario. Il sindaco di Firenze non può permettersi di essere fagocitato in una lunga stagione di solidarietà nazionale soprattutto se l’azione del governo non sarà in qualche modo rivoluzionaria. Se il saldo delle larghe intese, insomma, non sarà decisamente positivo quando si farà il bilancio dell’esecutivo. E questo è il grande “conflitto di interessi” che divide Renzi da Palazzo Chigi: il primo ha bisogno di andare al voto in tempi brevi per non logorarsi. Letta ha bisogno di tempo per consolidarsi e per fregiarsi del merito di avere “licenziato”, insieme a Napolitano, Berlusconi. Ad Alfano serve almeno un anno per accompagnare fuori dalla politica il suo ex mentore e costruire il nuovo Pdl.
Nello stesso tempo la sconfitta del “vecchio leader” può sortire degli effetti sul sistema politico nel suo complesso. La fine del ventennio berlusconiano apre lo spazio per la costruzione di un moderno bipolarismo. Con un partito finalmente conservatore nel senso europeo del termine. Un soggetto in cui possano confluire tutti gli esponenti moderati presenti nel panorama politico italiano. Tutto questo però può accadere ad una condizione: che si cambi la legge elettorale. Tra due mesi la Corte costituzionale valuterà la costituzionalità del Porcellum. Può essere l’occasione per archi-
viare la peggior legge elettorale che questo Paese abbia mai avuto. Qualcuno potrebbe avere la tentazione di utilizzare la Consulta per riportare l’Italia nella palude di un sistema pienamente proporzionale, capace di perpetuare all’infinito le larghe intese. Un salto che brucerebbe insieme al ventennio berlusconiano anche il bipolarismo.
Un quadro istituzionale finalmente liberato dall’anomalia berlusconiana potrebbe invece dar vita ad un impianto compiutamente bipolare e alternativo. Una prospettiva che naturalmente metterà in gioco anche il partito uscito vittorioso dalla partita di questi giorni, ossia il Pd. Il quale potrebbe subire a sua volta una fuoriuscita verso il futuro polo centrista e affrontare l’ennesima ridefinizione della sua natura. Come la Dc vide trasformarsi il suo ruolo dopo la caduta del comunismo, così il Pd potrebbe essere costretto a riflettere sulla fine del berlusconismo. Del resto, quando nel 1993, nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, furono approvati da una valanga di sì i referendum che portarono alla legge elettorale maggioritaria, l’allora presidente del consiglio Giuliano Amato commentò: «Si tratta di un autentico cambio di regime, che fa morire dopo settant’anni quel modello di partito-Stato che fu introdotto in Italia dal Fascismo e che la Repubblica aveva finito per ereditare, limitandosi a trasformare un singolare in plurale». Anche in questo caso la fine della stagione del Cavaliere, e l’introduzione di una riforma elettorale, può determinare un cambio di regime.


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