“Pronto l’accordo”, l’America scaccia il default

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L’AMERICA eviterà l’incubo di dover scegliere tra pagare gli interessi sul suo debito alla Cina oppure pagare le pensioni ai suoi anziani.

DOPO due settimane di “serrata di Stato” e a 48 ore dal default, un accordo ieri sera sembrava ormai imminente. In extremis, sull’orlo del precipizio, Barack Obama è sul punto di incassare una sostanziale vittoria. Tutti i sondaggi gli davano ragione da una settimana a questa parte. Il braccio di ferro coi repubblicani che ha costretto a chiudere molti servizi pubblici federali, a lasciare a casa 450.000 dipendenti senza stipendio, infine a rischiare un’insolvenza tecnica sul debito pubblico, si è rivelato disastroso per la destra bocciata dall’opinione pubblica e anche dal mondo del business.
La suspense è durata fino all’ultimo, tenendo col fiato sospeso i mercati finanziari globali e i governi del mondo intero, a cominciare da quello di Pechino che è il più grosso creditore estero dell’America. Un ennesimo colpo di scena si è avuto alle ore 15 di Washington (le 21 italiane), nel giorno della parata del Columbus day, quando un summit tra Obama e i leader del Congresso è stato rinviato all’improvviso. Ma la notizia, che poteva gettare nello sconforto, non ha spaventato Wall Street: gli indici di Borsa hanno proseguito il loro rialzo. I mercati si sono fidati della spiegazione data dalla Casa Bianca: «Il rinvio serve per consentire ai leader di ambedue i partiti al Senato di progredire verso una soluzione che alzi il tetto del debito pubblico e consenta di riaprire l’amministrazione federale».
A quell’ora il gioco quindi era nelle mani di Harry Reid, il democratico che presiede il Senato, e Mitch McConnell che guida l’opposizione repubblicana. Reid aveva pochi dubbi sull’esito finale: «Sono molto ottimista, raggiungeremo in settimana un’intesa ragionevole per mettere fine alla paralisi dello Stato». Un parere ribadito con frasi quasi identiche dal suo collega repubblicano: «Ottimismo costruttivo». Più problematica, fino all’ultimo, la situazione alla Camera dove sono i repubblicani ad avere la maggioranza. Il loro leader, lo speaker John Boehner, era l’unico esponente di quel ramo del Congresso ad avere accettato l’invito alla Casa Bianca. Come sempre, Boehner si comporta da moderato ma non è sicuro che lo seguano le truppe più radicali, cioè i parlamentari che fanno capo alla corrente del Tea Party. Un accordo bipartisan al Senato, tuttavia, metterebbe la Camera sotto una pressione forte.
Non a caso per “cucinare” il compromesso sono tornati in gioco dei leader storici come John Mc-Cain, il senatore repubblicano dell’Arizona che sfidò Obama nell’elezione presidenziale del 2008. Mc-Cain è un esponente del vecchio establishment conservatore, non ha mai approvato il “gioco al massacro” del Tea Party che nella sua furia anti-statalista ha paralizzato ogni legge di bilancio. Obama ancora ieri mattina aveva richiamato
tutti alle loro responsabilità: «Se non alziamo il tetto del debito entro questo giovedì, il default è probabile ». Con l’inaudita conseguenza: il Tesoro Usa non avrebbe più la possibilità di emettere titoli sui mercati per rifinanziarsi oltre il limite raggiunto (16.700 miliardi di debito). Dunque dovrebbe scegliere quali creditori pagare: i pensionati americani, o la banca centrale cinese? I dipendenti pubblici, o l’industria militare che fornisce il Pentagono?
Alla fine il compromesso che sembrava raggiunto ieri, risolverebbe almeno fino all’inizio del 2014 le due crisi parallele: shutdown e default. Per cessare la serrata di Stato il Congresso rifinanzierebbe la legge di bilancio quindi le spese correnti. Per scongiurare il default verrà alzato il tetto del debito. Il tutto fino a gennaio-febbraio, con l’intesa che nel frattempo le due parti negozieranno riforme strutturali della spesa pubblica.
Senza toccare però la riforma sanitaria: una vittoria cruciale per Obama.
Alla quasi-svolta di ieri sera, che attendeva conferme ufficiali, ha contribuito un allarme senza precedenti. Una triplice convergenza di appelli accorati a Washington. Da una parte, sindacati e Confindustria hanno firmato una lettera congiunta, gesto inaudito: «Non possiamo permetterci né la chiusura dell’Amministrazione pubblica né la rimessa in questione della nostra solvibilità». Alle loro voci si è unita quella di Li Keqiang, premier cinese, che al segretario di Stato Usa Kerry ha detto: «La Cina è preoccupata per il debito americano ». Dal resto del mondo, come dall’America profonda, dall’opinione pubblica e da Wall Street, il coro è stato unanime: che cessi questa follia.


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