Quei numeri che agitano il Pd: Renzi su tutti, addio vecchia guardia

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ROMA — Quel sondaggio che gira nei corridoi della sede nazionale del Partito democratico viene preso con le molle dagli stessi renziani, perché assegna al sindaco di Firenze una cifra da capogiro: l’83 per cento. 
Una messe di voti che il primo cittadino dovrebbe prendere un po’ dovunque: dagli ex ds, e infatti tale è il capo del suo comitato elettorale, il segretario regionale dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, dagli ex ppi provenienti dalle correnti di Fioroni e della Bindi, da settori della Lega e del Pdl (si parla anche di un senatore del centrodestra che starebbe per passare con Renzi). Pippo Civati, Gianni Cuperlo e Gianni Pittella si spartirebbero quindi il restante 17 per cento. Un magro bottino per loro, come a dire che il congresso è già finito, anche se la percentuale alla fine fosse minore. 
Ma quello che rende ancora più impressionante il risultato è che stando a quelle rilevazioni Civati sarebbe sopra Cuperlo. «Quando la campagna elettorale si polarizzerà non sarà più così e vedrete che i consensi di Gianni cresceranno», tiene a precisare Nico Stumpo. Il sondaggio, però, ha dell’incredibile non tanto, o, meglio, non solo per il consenso plebiscitario che attribuisce a Renzi, quanto per il fatto che chiude un’era. L’era della vecchia guardia del partito, quella che contava e che vinceva sempre. Quella, per intendersi, dei D’Alema, dei Marini e dei Bersani, di quelli, cioè, che sostengono la corsa di Cuperlo alla segreteria del Partito democratico. 
All’inizio di questa avventura congressuale D’Alema diceva: «Io non ho mai perso un congresso e un mio candidato ha sempre vinto». E ancora prima era solito affermare: «Il capotavola in politica è dove mi siedo io». Franco Marini, invece, amava ripetere la storiella toscana secondo cui «Renzi era il portaborse di Lapo Pistelli, quindi dove volete che vada. È un ragazzotto, è arrogante, deve farne di strada per andare avanti». Dalla bocca di Bersani usciva ben di peggio perché, come è noto, l’ex segretario è convinto che dal giorno in cui Renzi si è messo in testa l’idea di fare il premier non ha fatto altro che tentare di pugnalarlo «alle spalle». 
Dunque, per dirla con il giovane Alfredo D’Attorre, della segreteria del Pd, «un ventennio finisce per tutti, perché la politica italiana va a cicli». Finisce per Silvio Berlusconi, visto che ora nel Pdl si stanno fronteggiando un politico di 43 anni come Angelino Alfano e un esponente di 44 come Raffaele Fitto. Saranno loro a dividersi il partito e la richiesta di Fitto di convocare un congresso non è tanto la richiesta di chi pensa che sia veramente possibile ottenere le assise, ma la sottolineatura di chi pensa che una parte del Pdl spetti anche ai cosiddetti lealisti. E finisce anche per il vecchio gruppo dirigente del Partito democratico. A Palazzo Chigi siede Enrico Letta, anni 47, a Largo del Nazareno dal 9 dicembre siederà Matteo Renzi, anni 38. È un cambio generazionale che ha dello straordinario per l’Italia. 
«La vecchia guardia alla fine sarà costretta a capire che deve lasciare la scena», osservava qualche giorno fa, con la solita preveggenza, Paolo Gentiloni. Questo non significa che venga automaticamente stretto un patto generazionale tra tutti i nuovi protagonisti della politica italiana. Secondo Renzi «Letta, Alfano e Lupi lo hanno siglato». Non altrettanto si può dire del sindaco di Firenze e del presidente del Consiglio. Lo dimostra il fatto che alle primarie, oltre a Paola De Micheli e Guglielmo Vaccaro, anche il più ascoltato e il più brillante consigliere di Letta, Francesco Sanna, non voterà per Renzi, ma dovrebbe preferirgli Cuperlo. 
Maria Teresa Meli


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