Un’agenda a ostacoli

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 Ipiù delusi restano tutti quegli italiani che si aspettavano un’altra Antimafia. Ma è andata così. Proviamo senza pregiudizi a mettere un punto e a capo, auguriamo buon lavoro a tutti a cominciare dalla Bindi e poi chi dovrà giudicare, giudicherà dai fatti. Certo, adesso, un’«agenda» questa Antimafia se la dovrà dare. Da dove cominciare i lavori, le audizioni, le trasferte dei comitati sui territori? Cosa dovrebbe fare oggi, nel 2013, la commissione per «accertare e valutare la natura e le caratteristiche dei mutamenti del fenomeno mafioso e di tutte le sue connessioni…»?
Innanzitutto rassegnarsi all’idea – ma con alcuni onorevoli lì dentro, sarà molto dura – che le mafie, soprattutto Cosa Nostra e ‘Ndrangheta, non sono bande di «volgari malfattori » ma professionisti della violenza al servizio del potere. I Riina e i Cutolo, i Peppe “Tiradritto” e i Provenzano passano ma le mafie restano. Da due, tre secoli. Restano grazie ai complici, quelli che si annidano nelle istituzioni, negli apparati, nelle imprese, nella finanza, nei partiti. Il primo nodo è sempre lo stesso: il rapporto dei boss con la politica. Forse bisognerebbe, per le facoltà della commissione e per le sconcezze che affiorano sempre di più nel nostro Paese, indagare meglio su questo fronte. Una commissione parlamentare serve a questo, altrimenti che fa? Per esempio lei, presidente Bindi, si ricorda che mentre era in Calabria a fare campagna elettorale è stato arrestato un sindaco del suo partito non come contiguo ma come «associato», sostenuto da tanti big del centrosinistra reggino?
Attenzione anche al 416 ter, la riforma sul voto di scambio passata in commissione giustizia alla Camera: un passo indietro, ci sono quasi tutti i pm che parlano di grossi rischi anche per processi ancora in corso su uomini politici vicini ai clan campani.
Un secondo punto: le mafie al Nord. Ci sono larghe zone d’Italia dove le mafie «non esistono». L’altra settimana hanno sciolto per infiltrazione il primo comune della Lombardia, Sedriano. In questo paese, prima ancora degli investigatori e prima ancora dei magistrati, è stata una giovanissima giornalista – Ester Castano del settimanale l’Altomilanese – a scoperchiare gli affari e le amicizie degli amministratori locali. In solitudine. Con tutti contro. Anche i carabinieri della locale stazione, che le notificavano «diffide» per non avvicinarsi al sindaco. Sedriano è solo un caso, in molte regioni del Nord e del Centro c’è ancora un’alta sottovalutazione della penetrazione delle mafie, c’è un forte «negazionismo» anche istituzionale. Ci sono imprese apparentemente pulite – ma con solidi legami in Sicilia e in Calabria – che fanno affari indisturbati. Bello il segnale che ha voluto lanciare sabato scorso il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, ai funerali di Lea Garofalo, la donna calabrese bruciata dai boss: «Questa è una città antimafia».
Terzo punto: la trattativa Stato-mafia e i mandanti delle stragi del 1992. I patti ci sono sempre stati, fin dall’Unità d’Italia. La trattativa recente più nota, quella fra le uccisioni di Falcone e Borsellino, è diventata un affaire incandescente per via delle telefonate, poi distrutte, fra il capo dello Stato e l’ex ministro Nicola Mancino. Ma questa è solo una piega della vicenda, il cuore rimane l’incrocio di patti e di ricatti che ci furono in quell’estate di 21 anni fa. A Palermo si sta celebrando un processo, che finirà secondo regola con assoluzioni o condanne. A Caltanissetta, s’indaga ancora sui «mandanti altri» di quei massacri. Dopo tanto tempo non sappiamo praticamente nulla di chi, oltre Totò Riina, ha voluto morti Falcone e Borsellino. Una commissione parlamentare potrebbe portare un contributo, anche «storico», alla verità. Ma questa commissione, così com’è messa, sarà davvero in grado di farlo?


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