Il gigante che piace alla Grande Mela «Ora paghino i ricchi»

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NEW YORK — «Basta privatizzazioni. Basta affidare servizi pubblici ai contractor esterni. E basta attacchi ai sindacati che devono, invece, estendere il loro ruolo: nel passato in America si è affermato un vasto ceto medio grazie al movimento dei lavoratori. Oggi il 46 per cento della gente di New York vive in povertà. Parlare dei problemi di chi, pur lavorando sodo, fatica ad arrivare a fine mese è onesto e patriottico: servono 200 mila case popolari, basta chiudere gli ospedali di quartiere. E i ricchi devono dare di più con le tasse per finanziare gli asili e il doposcuola delle scuole medie».
È l’imbrunire quando Bill de Blasio, l’italoamericano che martedì verrà eletto sindaco di New York, arringa una piccola folla fatta soprattutto di sindacalisti sulla scalinata di Borough Hall, il municipio di Brooklyn. Gli attivisti agitano felici i cartelli delle union degli insegnanti e di quelle dei camionisti, mentre lui incalza: «Dobbiamo organizzare altre categorie: guardie private, dipendenti degli autolavaggi e dei fast food». È tornato il vero Bill, il «loro» sindaco: l’immagine del campione della lotta degli oppressi in un sistema dominato dal grande capitale finanziario scaccia di nuovo quella del candidato che fa pace con Wall Street e incassa l’apprezzamento dei banchieri e perfino di Donald Trump, appena diffusa dai giornali.
Ma qual è il vero de Blasio? Quello che da New York si propone di diventare il motore di una rivoluzione sociale americana, e magari mondiale, nel segno dell’egualitarismo (con l’ovvio corollario di un aumento delle tasse sui ricchi) o il candidato che si siede a tavola coi tycoon della finanza riuscendo a sedurre anche l’arciconservatore Rupert Murdoch e il capo di Goldman Sachs, Lloyd Blankfein? E che, nelle parole di Trump, «non ucciderà la gallina dalle uova d’oro» che è la finanza per questa città? Da de Blasio non arrivano risposte nette. Né, forse, se ne possono pretendere nella foga delle ultime 72 ore della campagna elettorale. Anche se la corsa è tutta in discesa, visto il vantaggio siderale (40 punti percentuali nei sondaggi) sull’avversario repubblicano, Joe Lhota: «Non c’è solo una New York sempre più divisa tra foreste di condomini per plurimilionari e mezza città che scivola verso l’indigenza», dice il candidato democratico, mentre fende la folla di un altro evento elettorale. «Un modello progressista per correggere squilibri che sono diventati eccessivi serve in tutta l’America, è nell’interesse di tutti». Poi, ammiccante coi cronisti italiani: «Torno sempre volentieri in Italia. Le radici della mia famiglia sono a Sant’Agata dei Goti. Averle ritrovate mi ha dato un senso diverso delle cose, ha cambiato il mio modo di vedere il mondo».
Marxista, sandinista, castrista: de Blasio è riuscito a spazzare via le caricature che la stampa di destra aveva provato ad appiccicargli addosso sulla base delle sue infatuazioni politiche giovanili. Ma il pragmatismo dell’amministratore efficiente che Bill ha esibito davanti alla comunità degli affari non gli farà di certo rinnegare il suo credo sociale. Lo sanno anche quelli di Wall Street che, pure, si dicono pronti ad accoglierlo a braccia aperte: qualcuno sta semplicemente saltando sul carro di un vincitore che avrà enormi poteri d’indirizzo dell’attività economica della città; altri si rendono semplicemente conto che non possono passare i prossimi quattro anni a elaborare il lutto per la perdita di Michael Bloomberg. Un altro come lui, un imprenditore della finanza che diventa sindaco, non ci sarà mai più. De Blasio spaventa, più ancora che per le sue idee sulle tasse, per l’intenzione di rendere meno stringenti i controlli di polizia nelle strade, oggi severi soprattutto per neri e ispanici: il timore è quello di un’inversione di tendenza dopo vent’anni — quelli di Giuliani e Bloomberg — di crollo verticale degli indici di criminalità.
Ma alla fine il mondo dell’economia e anche i benestanti progressisti della città scommettono sul pragmatismo di de Blasio: se vuole diventare un modello (e magari anche un leader) nazionale, non può certo ignorare l’ossessione degli americani per la sicurezza. E Bill sa bene che il suo esperimento sarà attentamente monitorato dal partito democratico che intende focalizzare proprio su lavoro e riduzione delle diseguaglianze le presidenziali del 2016.
Per adesso Bill coglie i frutti di una campagna elettorale efficace e senza sbavature nella quale, più ancora che sul suo credo economico-sociale, ha puntato sulla sua grande simpatia umana da «gigante buono» (è alto un metro e 96) e su una famiglia multietnica (la moglie, Charlene, è nera ed è stata anche una leader del movimento gay) per conquistare le minoranze. C’è riuscito alla grande facendo sparire, già nelle primarie, i candidati di colore e conquistandosi non solo il consenso di un’ampia maggioranza di afroamericani e italiani, ma anche degli ispanici (parla perfettamente lo spagnolo dagli anni dei viaggi in Nicaragua) e perfino degli ebrei.
Governare, ridurre le diseguaglianze e modificare i meccanismi di distribuzione del reddito senza rinnegare l’economia di mercato, sarà tutt’altra sfida.
Massimo Gaggi


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