Il premier in trincea e lo «sconcerto» per le mosse di Renzi

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ROMA — Il paradosso è anche nei tempi. Il governo si libera di Berlusconi, di tre mesi di minacce alla stabilità, «e proprio ora che siamo più forti…», proprio ora ci si mette il Pd.
In realtà ci si è messo Renzi. E quello che ha chiesto il sindaco di Firenze, probabile leader fra qualche settimana, in rotta con una parte del suo stesso partito, è stata la faccia di Letta. Il capo del governo ieri sera non si è sottratto: ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma la corsa a Olbia e ritorno, proprio per arrivare all’assemblea dei democratici, significa almeno due cose.
Letta si è consultato con il Colle, ha parlato più volte con il suo ministro, lo ha costantemente tenuto lontano dall’ipotesi delle dimissioni, alla fine è entrato nei saloni di Montecitorio consapevole che proteggere il Guardasigilli, vista la situazione del governo e visti gli appetiti che ci sono in giro per un rimpasto, significa proteggere se stesso, la «ritrovata forza di questo esecutivo», dopo l’uscita del Cavaliere.
Ma dietro la figura e la storia della Cancellieri, per Enrico Letta, ci sono anche ragioni non tattiche, di mera protezione dell’esecutivo, ma strategiche, legate a quello che immagina essere il Pd del futuro. In un attimo di amarezza il presidente del Consiglio si è detto «sconcertato» da quanto accade nel suo partito.
E lo sconcerto è dovuto a ragioni di sostanza, non di tattica politica, quelle le comprende, forse se le attendeva anche, ma non in questo modo, non sino al punto da mettere a rischio la stabilità. Per Letta la vicenda del ministro della Giustizia è divenuta emblematica di quello che il Pd stenta a diventare, un segno di immaturità politica. E quando D’Alema ha detto che il «caso» Cancellieri, senza un intervento dei magistrati, in pratica non esisteva, due giorni fa, il premier si è trovato pienamente d’accordo.
La vicenda ha una cornice giudiziaria accarezzata, in qualche modo auspicata, nella sua intensità, da Renzi e Civati: per Letta questa dinamica è inammissibile. L’Italia è appena uscita da vent’anni di conflitti fra politica e magistratura, i due piani troppo spesso si sono sovrapposti; la fine del ventennio berlusconiano, è l’auspicio, richiederebbe una visione diversa, più distante, da parte di un partito che si candida a riformare lo Stato e governare la prossima legislatura.
Insomma, prima che la Procura di Torino sgombrasse il campo da ipotesi penali, viene fatto osservare a Palazzo Chigi, alcuni media e ampi settori del Pd sono andati a braccetto nel giudizio e nelle aspettative sul caso. Caselli, il procuratore di Torino, li ha delusi. Napolitano ha accolto soddisfatto la decisione dei magistrati piemontesi. Letta ha tirato un sospiro di sollievo ma elaborato un’altra riflessione amara: fare l’occhiolino ai pm è il segno di una stagione che continua a non chiudersi e che invece lui vorrebbe che il Pd si lasciasse alle spalle.
Poi c’è il merito, un caso che sin dall’inizio è stato valutato nel governo privo di risvolti giudiziari: la difesa della Cancellieri era sembrato a Letta che potesse bastare, l’amicizia con la famiglia Ligresti non abbastanza scomoda da doverla rinnegare, o nascondere. Il Guardasigilli non ha fatto entrambe le cose, una fetta del Pd invece «ci ha costruito un caso politico, complice il congresso», ma calpestando dei principi che a lui in questi giorni sono apparsi cristallini.
«Non ci pare che interessarsi di una persona che conosci da tanti anni, se in grave difficoltà, sia qualcosa da censurare; soprattutto se l’interessamento è quasi quotidiano a favore di centinaia di detenuti e soprattutto se è fatto da un ministro che non ha poteri sul caso, nè alcun nesso gerarchico con la pratica», riassumono nello staff di Letta.
Con questi sentimenti ieri il presidente del Consiglio è entrato nel salone della Camera, ha preso la parola e ha detto quello che ha detto. Che la battaglia politica non può pregiudicare gli interessi del Paese. Dispiaciuto che Renzi anteponga ai secondi lo scontro congressuale: in questo caso il Pd non fa un salto in avanti, semmai all’indietro. Un’intesa di medio periodo con Renzi, a tempo, a questo punto diventa più difficile. Emergono due idee diverse del partito.
Marco Galluzzo


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