Iran, giù il petrolio dopo l’accordo A gennaio la conferenza sulla Siria

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NEW YORK — Perfino la Borsa di Tel Aviv festeggia l’accordo sul nucleare con l’Iran. Si unisce così alla reazione positiva dei mercati mondiali, in particolare il calo del petrolio che ha salutato la parziale levata di sanzioni. Tra le conseguenze indirette dell’accordo sul nucleare iraniano con ogni probabilità va inclusa anche la convocazione di una conferenza internazionale sulla Siria, a Ginevra il 22 gennaio. Perfino gli avversari più risoluti dell’accordo con Teheran, cioè il governo israeliano e quello saudita, cominciano a cambiare i toni. Resta il fatto che Barack Obama dovrà vedersela con i “falchi” di politica estera al Congresso di Washington: non solo nella destra repubblicana, ma anche tra i ranghi del suo partito democratico non mancano le voci di dissenso e di diffidenza verso le promesse del presidente Hassan Rouhani. E tuttavia anche i più ostili dovranno vedersela con il ri-posizionamento di Israele e Arabia Saudita che dalle ultime ore sembrano più interessati a influenzare l’accordo più che a sabotarlo.
La più univoca delle reazioni è stata ieri mattina alla riapertura dei mercati l’ondata di vendite sul mercato petrolifero. Anche se il segretario di Stato Usa John Kerry ha sottolineato che in attesa dell’accordo finale l’allentamento delle sanzioni è molto limitato (appena 6 o 7 miliardi di dollari), tuttavia i mercati già vedono all’orizzonte un aumento delle esportazioni di greggio iraniano. Al Nymex il greggio ha ceduto l’1% circa a 93,90 dollari al barile, mentre il Brent è scivolato a 108 dollari al barile. Se in futuro sarà trovato un accordo definitivo, secondo alcune previsioni il Brent potrebbe calare a 90 dollari al barile entro la fine dell’anno prossimo e scendere a 70 dollari entro il 2020, dando una mano anche alla ripresa europa. A questo si aggiungerebbe la riapertura di sbocchi commerciali per economie come quella italiana, che storicamente hanno avuto rapporti intensi con l’Iran.
Sul fronte siriano, erano passate poche ore dall’annuncio dell’accordo sul nucleare tra l’Iran e le potenze del gruppo 5+1 (Usa, Russia, Cina, Inghilterra, Francia, Germania) quando il segretario generale dell’Onu Ban ki-moon ha fissato la data del 22 gennaio per l’attesa conferenza internazionale a Ginevra. Il ministro degli Esteri Emma Bonino ha confermato che l’Italia ha «interesse e determinazione » a sedersi al tavolo. Iran e Arabia Saudita saranno invitati: la partecipazione di Teheran
era stata uno dei nodi fin qui irrisolti. L’obiettivo della riunione di Ginevra è dare vita a un governo di transizione. Le opposizioni in esilio continuano a chiedere che Assad non faccia parte del processo di transizione politico.
Tornando al dossier nucleare,
dopo le iniziali critiche l’Arabia saudita e gli altri governi del Golfo ieri hanno cominciato a prendere atto della nuova realtà e a modificare il loro linguaggio. Significativo il comunicato del governo saudita, uno dei più diffidenti verso I piani atomici di Teheran: «Se c’è buona volontà — si legge nel documento ufficiale di Ryad — questo accordo potrebbe rappresentare un passo preliminare verso una soluzione complessiva sul programma nucleare iraniano». Dello stesso tenore le prese di posizione da Qatar e dal Kuwait.
In Israele, la prima reazione del premier Benjamin Netanyahu era stata quella di una condanna, l’accordo con l’Iran era stato definito a caldo «un errore storico». Ma dopo la lunga telefonata di Obama a Netanyahu domenica sera, anche il premier israeliano ha cambiato i suoi toni. Forse anche influenzato dalle reazioni dell’opinione pubblica israeliana, che secondo le prime indagini sembra tutt’altro che sfavorevole all’accordo. E così ieri mattina anche Netanyahu ha annunciato l’invio del suo consigliere per la sicurezza
a Washington, per degli incontri con l’Amministrazione Obama. La nuova linea di Netanyahu è stata definita: «Cooperare con Obama perché l’accordo finale sia duro». Intanto sottolineano fonti militari dello Stato ebraico – appare congelata almeno per sei mesi l’ipotesi di un blitz militare israeliano contro l’Iran.
Sui tempi dell’accordo finale ieri si sono avute previsioni molto ottimistiche: da Rafsanjani a Teheran al ministro degli Esteri francese Fabius, in diversi hanno evocato la possibilità di arrivarci molto prima della scadenza dei sei mesi, forse addirittura «entro la fine dell’anno». In parte questo dipende dalla sottile alchimia degli equilibri al Congresso di Washington (che deve votare sulle sanzioni), nonché all’interno delle correnti del regime iraniano. Le diffidenze reciproche da superare sono notevoli. A Washington, dai media ai parlamentari molti sono scettici su un accordo che lascia all’Iran il diritto di continuare ad avere uranio arricchito, sua pure sotto la soglia del 5% che dovrebbe garantirne l’uso per produrre energia e quindi la natura pacifica. Per l’Iran d’altra parte è questione dirimente che sia riconosciuto il suo diritto ad avere l’energia atomica civile. Il lavoro di questi sei mesi, per Obama e Rouhani, costituisce anche nel cominciare a cambiare il clima politico interno ai propri paesi, per accorciare le distanze e i sospetti e spianare la strada a un compromesso.


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