Afghanistan, l’addio degli italiani

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HERAT (Afghanistan)
HERAT è la sede maggiore della Regione Ovest, che comprende quattro province grandi quanto un quarto dell’Italia ed è affidata da sette anni al comando italiano. Da qui, senza esperienza precedente di Afghanistan, racconteremo quello che vediamo e sentiamo, prima di rifarci un paio di domande essenziali.
COME opera, e con quali pensieri e atteggiamenti, il contingente italiano, a rientro ormai iniziato — dovrebbe completarsi entro il prossimo anno — e che situazione lascerà, con quali prospettive. Siamo qui in quel modo peculiare che si è chiamato
embedded, cioè pienamente ospiti della componente italiana della forza armata Isaf. La base di Herat ha oggi tremila italiani, e quasi duemila militari fra americani, spagnoli e di altre nazioni. La Regione a comando italiano aveva finora, oltre a numerosi avamposti minori, quattro basi maggiori: oltre a Herat, Farah, Shindand, Bala Boluk.
Farah è stata smobilitata e restituita agli afgani giovedì scorso, 31 ottobre. Bala Boluk lo sarà entro il 15 novembre. Erano presidiate ambedue dai bersaglieri del 6° Reggimento di Trapani, al comando del colonnello Mauro Sindoni, 46 anni — i graduati di ogni ordine sono oggi molto più giovani che in passato, meno marziali, direi, e più spiritosi. Con che stato d’animo attraversa questo
passaggio di consegne? «Direi quasi che fatto, più o meno, l’Afghanistan, bisogna fare gli afgani. Probabilmente D’Azeglio lo ripeterebbe anche per noi italiani». Fra un trasloco compiuto e uno imminente, si dice «umanamente sollevato, e istituzionalmente soddisfatto del risultato. Eravamo un presidio per la prevenzione di attacchi e la libertà di movimento. Siamo progressivamente diventati una specie di scuola guida per militari e polizia afgani, e collaboratori dei loro organi di governo. A Farah c’erano 400 bersaglieri, e un certo numero di persone del Genio, delle comunicazioni eccetera. Ritornano in Italia e questa volta non saranno sostituiti. Non abbiamo avuto perdite, per fortuna, e questo è quello che importa di più a un comandante, né ne abbiamo procurate arbitrariamente». Proprio per quel proposito, dice, abbiamo spesso impiegato «una ridondanza di risorse». Come quasi tutti qui, ha più missioni alle spalle, tre in Kosovo. Ha avuto meno occasioni di rapporti con la popolazione che con colleghi afgani e autorità pubbliche. Dice che prima si è tentati di sentire la differenza, quel modo di intendere il tempo, soprattutto. Poi, quando ci si conosce meglio, si confrontano i problemi reciproci, e si scopre di assomigliarsi, e questo è il frutto più utile.
Chiusa anche Bala Boluk, che cosa farà? «Tornerò a comandare il reggimento a Trapani, per qualche mese ancora, poi credo che avremo la responsabilità dei Centri di Identificazione e di Espulsione». Ahi, dico, si troverà davanti magari qualcuno dei giovani afgani di cui ha apprezzato qui la curiosità e la voglia di progresso. Sospira, il colonnello: è così per ogni nuova generazione di migranti, lo fu per noi, lo è di nuovo. Quanto all’aria giovanile, è un effetto ottico, dice. «Da allievo il mio tenente mi sembrava anziano, e il mio colonnello decisamente vecchio. Quando sono diventato colonnello io ho trovato di essere piuttosto giovane».
L’età media dei soldati si avvicina ai trent’anni, perché hanno pressoché tutti un’anzianità di missioni, in Iraq, Libano, Kosovo. A tavola si scopre che quattro commensali hanno un figlio o una figlia di 10 anni, si ricostruisce una licenza di dieci anni fa. Il capitano dei carabinieri Marco Cervo, che in aereo legge Marco Nozza, ne ha uno di 13 e uno di 10, appassionato di calcio. Il tredicenne ama la musica, un metal molto heavy, dice, lo ha portato a sentire un concerto degli Slayer, ma già li trova troppo leggeri. Tra i graduati giovani molti hanno famiglia, e non esitano a dire frasi che in altre circostanze suonerebbero retoriche. Il caporalmaggiore Roberto Costa, per esempio, che mentre ci accompagna al buio della prima sera — la notte precipita di colpo, e in cambio offre uno stellato meraviglioso, e il campo è oscurato per sicurezza — dice che la sua bambina, 9 anni, protesta quando lui riparte, e lui le spiega «che cosa vuol dire qui dare una bottiglietta d’acqua a una bambina che non te l’ha chiesta», dice così, che non te l’ha chiesta, e immagino che voglia dire lo stupore grato.
Bene, il libro Cuore è sempre in agguato, allora torniamo al giorno fatto, e al nuovissimo argomento dei Predator, i droni di cui tanto si parla. Riceviamo una istruzione teorica e pratica impressionante sui Predator, che non proverò a riassumere nei suoi aspetti tecnici, per manifesta inferiorità. Dirò qualcosa sulla singolare, per le mie aspettative, disponibilità a lasciarci guardare con gli occhi e toccare con mani un complesso di umani e macchine dei più delicati. I Predator italiani sono disarmati, servono per la ricognizione. Servono moltissimo: i militari sul campo dicono che cambiano tutto, che è come avere davvero un angelo custode sulla testa. «Un
occhio dal cielo», dicono i loro titolari, orgogliosi di una competenza per cui gli italiani sono arrivati prima di altri, e a volte sono ancora gli unici dopo gli americani, per esempio nella guida satellitare, oltre la guida a vista. Hanno ottenuto, i nostri ospiti, il record mondiale della persistenza in volo: 26 ore, 42 minuti e 55 secondi, alternando 4 equipaggi a terra. Non sono contenti che si chiamino aerei senza pilota: chi li guida dalla sua sedia è a tutti gli effetti un pilota, e sente la stessa pressione, la stessa responsabilità di uno seduto nel cockpit tradizionale. La differenza è nella quantità di informazioni e nella precisione corrispondente: scoprono attacchi in corso o preparati, collocazioni di ordigni nelle strade — il pericolo più incombente — svolgono compiti civili, come nell’appena inaugurata attività “Mare Nostrum” nel canale di Sicilia.
Nella campagna elettorale afgana — le elezioni di aprile, che decideranno anche della successione a Karzai, reduce da due mandati — i Predator potranno sorvegliare la regolarità e proteggere dagli attentati gli assembramenti ai seggi. Il programma si chiama Astore, il comandante della Forza aerea italiana è il colonnello Saverio Agresti, 49 anni che sembrano 30, laurea in scienze aeronautiche e in scienze politiche, già in Bosnia e Kosovo; al comando dei Predator è il capitano Sergio T., 30 anni che sembrano 25, la Mission monitor Mariangela ne ha 25 che sembrano 20, attorno a loro un equipaggio di donne e uomini tutti sui 25. Chiedo se un ragazzino non rischi di cavarsela meglio di un professionista con la cloche e i computer in una stanzetta, replicano che nella vita, e soprattutto in questo lavoro, conta molto anche l’esperienza: l’esperienza di cui parlano è l’anzianità dei loro venti o trent’anni. Della controversia su usi e abusi di droni armati pensano che il futuro renderà sempre più urgente il problema, e che occorrerà regolarne morale e legge. Che quando diventa possibile fare una cosa nuova e formidabile è difficile misurarne l’uso. Sottolineano che i loro Predator sono disarmati, e che armarli non è l’affare di una decisione, ma implica una trasformazione drastica dell’architettura dell’apparecchio. Che gli italiani di fronte al dubbio sull’effetto cosiddetto collaterale di un’azione non obbligata dalla legittima difesa e dal soccorso, rinunciano all’azione. E che il Predator è molto più preciso di qualunque altro mezzo per la determinazione di un obiettivo.
L’Italia ne ha 6, li ha impiegati dal 2005 in Iraq, dal 2007 qui, per un totale di quasi 12 mila ore di volo. Al primo modello, l’A, se ne è aggiunto un altro, B — la sua versione “armata” si chiama Reaper. Quello che noi vediamo all’opera è il modello A, ha un motore di 109 cavalli — «meno di un motorino» — è silenzioso, ha sensori ad alta definizione e vede nella notte meglio che di giorno, però soffre del maltempo e del vento. Ci atterra davanti e poi viene docile all’hangar dove i manutentori lo rimettono al guinzaglio.
Ma ti sei fatto abbindolare dal drone? — direte. Un po’. È una meraviglia. Penso a Leonardo da Vinci, alla sua geniale mappa di Imola vista dall’alto — Leonardo disegnava aerei ma non era salito in alto a guardare Imola. Però non ho affatto dimenticato il resto, il giovane americano che ha appena raccontato di aver ammazzato 1800 persone dalla sua sedia di telepilota, e di averne abbastanza. Le cose hanno almeno due facce, due usi. Il soldato che si muove sul terreno e riceve in tempo reale sull’iPad immagini e didascalie su ogni passo suo e di chi gli tende un agguato, può trovarsi su quel terreno per almeno due ragioni. Chi detesta la guerra e auspica una polizia internazionale, misura tutto, le parole e il viso del colonnello Agresti, del capitano Sergio, della Mission Monitor Mariangela, su quel criterio.
La pista del Predator è, incredibilmente, la stessa su cui atterrano e decollano gli aerei di linea afgani. E bisogna stare attenti a metterci in mezzo un intervallo di qualche minuto almeno, se no i vortici degli aerei di linea inghiottono il drone, che è quasi un aliante, e pesa meno di un’utilitaria. Il comandante Agresti non fa preferenze fra i suoi aerei: il Predator, il caccia AM-X, e il C 130 che ha un’aria antidiluviana con le sue quattro eliche nere ma fa il suo servizio di facchinaggio a meraviglia. «Ieri siamo andati a caricare i nostri a Farah, non c’è una vera pista, quando sono atterrati avevo voglia di battergli le mani».
È tutto un po’ strano. Ci sono cose solenni (il campo è pieno di memorie di caduti) e cose allegre. I lavoratori afgani hanno un’aria rilassata. I militari, uomini e donne, vanno di qua e di là, soli o a coppie o a gruppi, a fare qualcosa che sanno loro. È come un paese italiano di 3mila abitanti, tutti capi famiglia. Il cielo stellato sopra di noi.


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