Cina, la rivoluzione del “libero mercato” Xi Jinping lancia una task force per le riforme

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PECHINO — La Cina conferma di essere una nave sempre contro corrente: se non va avanti, torna indietro. Per questo il terzo Plenum del 18° comitato centrale del partito comunista ha accettato ieri che il presidente Xi Jinping, dopo Deng Xiaoping nel 1978 e Jiang Zemin nel 1993, abbia la possibilità di esercitare un «impatto storico » sul Paese e sul resto del pianeta. Nei prossimi dieci anni la Cina eleverà così il «libero mercato» da una «funzione di base» ad un «ruolo decisivo» e pur nella vaghezza burocratica della formula adottata nel comunicato finale del vertice, questo significa che Pechino ha dato il via libera alla terza ondata di grandi riforme economiche a partire dalla morte di Mao Zedong.
«Questi cambiamenti – ha sottolineato l’agenzia di Stato Xinhua – libereranno nuovi fattori di crescita, da cui tutto il mondo trarrà vantaggio». Per evitare che conservatori, alti funzionari corrotti e principi rossi dei colossi di Stato possano ostacolare questa «rivoluzione del mercato», i vertici del partito hanno creato una «taskforce » delle riforme. Il nuovo «Comitato per la sicurezza dello Stato» vigilerà sulla loro attuazione, ma in realtà è un super-pool riservato, composto da uomini di fiducia di Xi Jinping e del premier Li Keqiang, formato per proteggere i leader dall’intelligence straniera ed interna, consolidando «stabilità e sicurezza».
Qualcuno vi ha letto un atto di sfiducia del presidente verso gli alti dirigenti del partito, verso i generali e verso i funzionari che governano regioni e province, o le aziende di Stato. I leader cinesi possono annunciare le riforme più illuminate, ma se i quadri di questa sconfinata nazione non le applicano, come cronicamente accade, rimangono auspici. Xi e Li, già in ruoli di primo piano nell’ultimo quinquennio dello stallo di Hu Jintao e Wen Jiabao, si sono voluti tutelare dal rischio fallimento, in una fase in cui la crescita è scesa al 7,5%, il minimo dal 1999. Il segnale però è chiaro: grazie al mercato l’era del «sogno cinese» di Xi Jinping entro il 2020 vuole sancire il sorpasso dell’economia di Pechino su quella degli Stati Uniti, ma le riforme non toccheranno il sistema politico. «La Cina – avvertono i 376 uomini che per quattro giorni si sono riuniti in un blindato albergone sovietico alla periferia della capitale – si trova ancora allo stato iniziale del socialismo e vi rimarrà a lungo».
Dunque «socialismo con caratteristiche cinesi», capitalismo di Stato e autoritarismo di partito, e proprio su tale sempre più conflittuale convivenza promettono di concentrarsi le riforme, che per la prima volta pongono sullo stesso piano le aziende pubbliche e le imprese private. Pechino annuncia così che «la soluzione è un giusto rapporto fra governo e mercato, lasciando però che sia questo a svolgere il ruolo decisivo nella destinazione delle risorse». Come dire che anche in Cina il partito-Stato fisserà le regole, ma la partita economica dovranno giocarla i privati. «Gli imprenditori devono poter operare in maniera indipendente e competere lealmente – avverte il Plenum – e i consumatori devono essere liberi di scegliere». Una lezione di economia liberista, prima che il più importante documento politico del decennio cinese, che testimonia l’allarme-instabilità scattato da mesi nella leadership. La Cina socialista dell’abissale divario tra ricchi e poveri è al limite della tenuta sociale e solo uno «storico annuncio» avrebbe potuto accendere nuove speranze nella capacità di «riforme dall’alto ».
Imposto dalla propaganda, ieri l’annuncio è arrivato, la direzione è indicata, e in attesa dei fatti «l’ultima rivoluzione rossa» non sembra limitata a funzionari e milionari. Il Plenum assicura che migliorerà «il meccanismo dei prezzi », che piegherà l’amministrazione «alla legge e al servizio», che costruirà un «sistema giudiziario equo, efficiente e autorevole» e che renderà trasparente «il bilancio statale e il sistema fiscale». Più che una rivoluzione, una rifondazione, quasi la richiesta di un’estrema mozione di fiducia di massa, oltre che un appello agli investitori stranieri, invitati a partecipare a questo nuovo e aperto «mercato», che assicura di diventare il «più ricco di sempre».
Per i cinesi però, rinviata la fine dell’obbligo di figlio unico, gli annunci più decisivi sono altri due: «più diritti di proprietà ai contadini, che potranno partecipare equamente alla modernizzazione e condividerne i frutti» e un «sano meccanismo di urbanizzazione». Per 600 milioni di residenti nei villaggi significa sottrarsi al flagello degli espropri dei funzionari locali, mentre per 300 milioni di migranti interni, ridotti all’apartheid dal vincolo di residenza nel luogo di nascita, sembrano aprirsi le porte del welfare. I contadini saranno per la prima volta proprietari dei terreni. Operai e colletti bianchi, concentrati nelle metropoli nel nome dei consumi interni, beneficeranno di istruzione, sanità e pensione. Un volano colossale di diritti e di costi pubblici, ma anche la nuova frontiera asiatica del business ed è su questo che il nuovo capitalismo maoista di Pechino punta per non arenarsi nelle secche della stagnazione. Dopo il «botto» restano da verificare i tempi e i modi della «rifondazione di Xi». Se fallisce, la barca cinese torna ai «signori della guerra» che demolirono l’Impero di Mezzo. Se trionfa, adesso punta davvero dritto al governo globale del secolo.


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