Cina, sette bombe per sfidare il Partito comunista

by Sergio Segio | 7 Novembre 2013 8:18

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Gli ordigni, sette secondo l’agenzia governativa Xinhua , hanno ucciso una persona e ne hanno ferite otto, una in modo molto grave. La polizia ha trovato resti di cavi elettrici e contenitori metallici nelle fioriere che costeggiano la strada, proprio di fronte al palazzone che ospita gli uffici provinciali del partito. Quindi un luogo sorvegliato. In un raggio di circa duecento metri sono stati raccolti chiodi, schegge e biglie di acciaio: chi aveva caricato le bombe voleva uccidere e ha scelto l’ora in cui la strada era affollata da gente che andava al lavoro.
Un testimone: «Ho visto una scheggia di ferro colpire una donna anziana alla testa, poi molto sangue. Accanto a lei c’era un bambino con lo zainetto per la scuola, doveva essere il nipote». La polizia sostiene che gli ordigni erano di fabbricazione artigianale. Ma chi li ha preparati è stato in grado di farli esplodere in rapida sequenza, visto che i testimoni parlano di sette botti. Ma qualcuno dice anche di aver visto un furgoncino esplodere sulla strada.
La paura di un’autobomba si sta lentamente diffondendo dopo l’attentato del 28 ottobre a Pechino, quando il massiccio sistema di sicurezza era stato sorpreso da una jeep che si era andata a schiantare sulla piazza Tienanmen, proprio sotto il grande ritratto di Mao Zedong. Sulla piazza erano rimaste uccise cinque persone (tra le quali i tre attentatori) e i feriti erano stati 40. Poche ore dopo sono stati arrestati cinque militanti uiguri: uomini e donne di fede islamica venuti dalla provincia dello Xinjiang, estremo Ovest della Cina. Per le autorità si tratta di membri di una rete terroristica islamica. Il comandante militare dello Xinjiang è stato rimosso, per il fallimento dell’azione di prevenzione. La polizia ha individuato una serie di siti online attribuiti agli uiguri sui quali vengono diffuse informazioni su come fabbricare ordigni artigianali. Siti sui quali può «studiare» anche un non uiguro.
Ma se la Tienanmen, simbolo dell’unità nazionale e del potere cinese può essere il bersaglio per un gruppo terroristico in lotta per la separazione dello Xinjiang dalla Cina, che cosa può spingere qualcuno a compiere un attentato a Taiyuan, quasi 500 chilometri a Sud-Ovest di Pechino? Non sembra un caso che gli «ordigni artigianali» fossero stati piazzati davanti alla sede del Partito comunista. Potrebbe essere stata la vendetta da parte di gente comune convinta di avere conti da regolare con il potere e la burocrazia. Negli ultimi mesi c’è stato chi ha dato fuoco ad un autobus (uccidendo 40 persone); pugnalato piccoli funzionari; un uomo in carrozzina ha fatto esplodere dei petardi all’aeroporto di Pechino. In tutti i casi è venuto fuori che gli attentatori volevano vendicarsi di torti veri o presunti: l’autobus è stato distrutto da un sessantenne a cui era stata negata la pensione per un errore burocratico; l’uomo dell’aeroporto era rimasto menomato anni prima in un pestaggio compiuto da poliziotti violenti. Troppo presto per dire se le cose ieri mattina abbiano seguito la stessa trama.
Ma anche se chi ha messo le bombe a Taiyuan non è «tecnicamente» un terrorista, per le autorità il problema resta grave. Perché il palazzo del Partito comunista è un simbolo del potere, anche nel lontano Shanxi. E sabato a Pechino si apre il Terzo Plenum del Comitato centrale.
Guido Santevecchi

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