Costituzione, Art. 11. L’Italia e la scoperta di essere tra i “cattivi”

by Sergio Segio | 12 Novembre 2013 11:22

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Dopo la lunga pace sorvegliata dall’articolo 11 della Costituzione, con la strage di Nassiriya l’Italia infila l’elmetto e ammette di fare la guerra. Trascura l’ipocrisia del girare le parole (truppe di pace, truppe con compiti umanitari) per rinfrescare un passato che all’improvviso ritorna. E il dolore entra nelle tv di ogni casa. Non la solita sofferenza degli altri, città bruciate, profughi in fuga. Sono carabinieri e militari uccisi mentre montano la guardia al-l’operazione Antica Babilonia. L’ultimo massacro risaliva a un altro 12 novembre: 1961. Tredici aviatori in volo umanitario nel Congo della guerra civile vengono trucidati a Kindu.
52 anni dopo si combatte più meno attorno alle stesse ricchezze. Francia e Germania non si erano aggregate alla coalizione. Gli allarmi di Bush sulle armi di distruzioni di massa sepolte da Saddam chissà dove per Londra e Berlino avevano l’aria della messa in scena di chi voleva mettere le mani sul petrolio. Insomma, non gli hanno creduto. L’Italia di Forza Italia sì. Nassiriya era ed è un cuscinetto cruciale tra sciiti e sunniti, iraniani e iracheni. Presidio pericoloso: noi, le braccia, l’alto comando inglese l’autorità. Soffocato dalla retorica delle condoglianze ufficiali, il dolore trasforma quei poveri militari in difensori della patria e della civiltà: erano professionisti che per quadrare i bilanci familiari andavano di là dal mare a “difendere i nostri confini”.
LAVORO CON TANTI RISCHI e il salario della paura resta poca cosa che l’enfasi trascura perché non è bello ridurre le fanfare della caduta di Saddam nella paga del soldato che ha famiglia. “Si fa la pace costruendo scuole e ospedali, non sparando”: amarezza di Gino Strada. E i bersaglieri sparano quando gli ordini comandano. Quattro mesi dopo, sgombrano i ponti sull’Eufrate in una lunga notte di fuoco. Nassiriya cambia il rapporto tra i giornalisti italiani e i mondi inquieti in fondo al Mediterraneo. Prima che l’ambiguità delle missioni di pace trasformasse le nostre truppe in guardiani di conquiste economiche, eravamo un paese senza nemici. Ai giornalisti che seguivano le guerre bastava alzare il passaporto col sorriso di chi annuncia d’essere italiano. Ai posti di blocco rispondevano: “Buon viaggio, amico”. “Vai pure, fratello”. Ma il 19 gennaio 1991, prima guerra del Golfo, succede qualcosa: il Tornado del maggiore Bellini, navigatore capitano Maurizio Cocciolone, bombarda depositi d’armi nel Kuwait, ma non ce la fa a tornare. Si salvano col paracadute e finiscono nelle mani “impazzite” dei bombardati che non perdonano. Botte e torture. Intanto i reporter di terra (che non sanno della disavventura) provano a distribuire sorrisi e mostrare il passaporto orgogliosi di un paese felice che non conta. Invece comincia a contare: un po’ di loro finisce all’ospedale anche se ufficialmente non eravamo ancora nemici. L’articolo 11 frenava la disinvoltura dell’attraversare armati le nostre frontiere e lo statuto degli italiani in guerra restava incerto. Talmente traballante da bloccare la carriere del Bellini pilota del Tornado. Vent’anni dopo protesta coi comandi superiori. “Ho passato 47 di prigionia, torture e minacce. Ho ricevuto una medaglia d’argento al valor militare, ma ufficialmente non sono mai stato in guerra. Non risulta da nessuna parte”. Gli hanno spiegato che nel ’91 l’Italia non poteva dichiararsi in guerra con l’Iraq per non violare la Costituzione. E la sua avventura non è mai successa. Ma Nassiriya era diversa: tutto in regola, truppe di conquista autorizzate. E l’articolo 11? Sempre lì, basta non tenerne conto.

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