I toni allarmati mostrano un Paese incapace di dialogo

by Sergio Segio | 15 Novembre 2013 7:10

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Politicamente, il riferimento del presidente della Repubblica a un’Italia «stravolta da esasperazioni di parte in un clima avvelenato e destabilizzante» ha colpito più del protocollo ridotto all’osso; del cerimoniale stravolto dall’affabilità informale del Pontefice nell’abbraccio ai figli dei dipendenti; e del contenuto dei colloqui ufficiali. D’altronde, mai forse come in questa fase sono diminuiti i condizionamenti reciproci fra le due sponde del Tevere.
Non c’è solo un papa argentino, ma un modello sudamericano di Chiesa cattolica, che tende a ridisegnare dalle fondamenta i rapporti con le istituzioni e i poteri del nostro Paese dopo venti anni di intrecci e ingerenze controverse.
Il Vaticano, scolpiva ormai oltre mezzo secolo fa un diplomatico statunitense, «è il fattore permanente della politica italiana». Ma ieri, nei discorsi di Napolitano e Francesco ha finito per riflettersi la distanza oggettiva fra una nazione oppressa dalla gravità della crisi economica e dalla «piaga della corruzione e di meschini particolarismi», e una Santa Sede che sembra avere ritrovato, oltre che una guida forte, un equilibrio e un’identità a livello globale. Su questo, l’analisi del capo dello Stato e del papa convergono nel segno di una preoccupazione condivisa. E le reazioni liquidatorie e critiche nei confronti di Napolitano, provenienti da alcuni esponenti berlusconiani, hanno confermato implicitamente la difficoltà di ricostruire una parvenza di dialogo. venza di dialogo.
Dire, come è successo ieri, che il Quirinale «non ha fatto niente» per scongiurare i veleni, significa scaricare su altri l’impotenza colpevole dei partiti. Ma fa pensare anche l’attacco del candidato alla segreteria del Pd, Matteo Renzi, contro «accordicchi e larghe intese»: un rumore di fondo che allunga ombre sul futuro del governo di Enrico Letta, presente ieri al Quirinale; e proprio per gli equilibri in evoluzione nel suo partito. Il presidente della Repubblica sembrava chiedere sostegno a Francesco, quando ha constatato che in Italia «siamo lontani dalla cultura dell’incontro che Ella ama evocare, dalla Sua invocazione: ‘dialogo, dialogo, dialogo’».
Il papa gli ha risposto additando la piaga della disoccupazione come uno degli «effetti più dolorosi» della crisi; e ricordando il suo viaggio-lampo nell’isola di Lampedusa e la disperazione degli immigrati. Ma soprattutto, Francesco si è augurato che il Paese riesca a «cogliere e irrobustire ogni segno di ripresa», invitandolo a ritrovare «la creatività e la concordia». È stato come se il presidente e il Pontefice si chinassero insieme su un’Italia inquinata e sfigurata da una cultura del conflitto fine a se stesso. E incapace, finora, di liberarsene, nonostante il governo esprima una maggioranza trasversale che tenta di lasciarsi alle spalle una contrapposizione ventennale: una litigiosità che l’ha portata all’ingovernabilità e alla recessione dalla quale sta cercando di uscire.
La novità degli ultimi mesi è che questa cultura non soltanto divide gli schieramenti. Ormai si è infiltrata all’interno di ogni forza politica, mettendo in tensione in misura diversa Pdl, Pd, gruppo di Mario Monti, Lega. L’allarme di Napolitano nasce dalla consapevolezza di uno smottamento progressivo del sistema, e dalla difficoltà ad arginarlo: una deriva che probabilmente si accentuerà in cado di scissione del Pdl, con la nascita di una Forza Italia all’opposizione del governo. In quel caso, il doppio urto Berlusconi-Beppe Grillo potrebbe davvero far diventare le prossime elezioni europee di primavera come la prova generale di una campagna politica contro la moneta unica e le istituzioni di Bruxelles. Un’illusione velenosa, destinata a provocare altre lacerazioni.

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